Classic Voice

LEONCAVALL­O

- ELVIO GIUDICI

PAGLIACCI

INTERPRETI A.Villari, V.Sepe, D.Cecconi, L.Kim, M.Mezzaro

DIRETTORE Valerio Galli ORCHESTRA Maggio Musicale REGIA L.Di Gangi, U.Giacomazzi DVD Dynamic 37863 ★★★

Come nel caso delle Villi registrate a Firenze senza la loro accoppiata con la novità Ehi Gio’ di Vittorio Montalti, anche questi Pagliacci sono privati dell’accoppiame­nto che lo spettacolo proponeva con la prima esecuzione di Noi, due, quattro di Riccardo Panfili: due lavori entrambi basati su fatti di cronaca e legati dal comune tema del tradimento, dell’insoddisfa­zione, della gelosia. Un peccato. Anche perché di registrazi­oni video di Pagliacci ce ne sono parecchie, e questa, pur decorosiss­ima com’è, non avendo particolar­i numeri per sgomitare si sarebbe molto giovata dell’interesse suscitato da uno spettacolo per una volta non basato sull’ormai frusto Cav&Pag.

La cosa migliore è senz’altro l’orchestra. Galli stacca un’agogica spedita, la innerva di accensioni sensuali e amari ripiegamen­ti di cupa disperazio­ne grazie a un lavoro eccellente sulla dinamica e sugli spessori che scansa ogni pericolo di retorica a buon mercato, senza per questo rinunciare al turgore enfatico che è parte integrante del linguaggio drammaturg­ico di Leoncavall­o: non sarà una lettura innovativa o di riferiment­o, ma la si ascolta con molto piacere. Sicché spiace dover stigmatizz­are il mantenimen­to dello scellerato taglio delle 46 battute centrali del duetto Nedda-Sivio. Vero che la partitura dice “volendo, per brevità…” ma è una delle tante scellerate cose rubricate come “di tradizione”, che nel ’19 non dovrebbero più essere seguite. Cast privo di nomi internazio­nalmente stellari, però (verrebbe voglia di dire proprio per questo…) omogeneo nel suo insieme, e dalle voci tutte idonee alle rispettive scritture. Robusta, ferma e incisiva senza alcuna sbavatura grandguign­olesca quella di Angelo Villari: un Canio austero, secco, ormai amareggiat­o ma non cinico. Il fraseggio non sarà rifinitiss­imo, ma se si pensa alle scellerate­zze fatte udire da un Antonenko in spettacoli ben altrimenti blasonati ce n’è abbastanza per laurearlo tra i migliori oggi proponibil­i, come dimostra anche il tradiziona­le la acuto sparato alle “Ventitré ore”, raggiunto con un passaggio di registro da manuale. Valeria Sepe è un po’ debole nel registro grave ma luminosa e scattante in quello acuto, e fraseggia con estremo gusto. Magnifico poi il canto di Leon Kim. Per quanto mi concerne, Silvio è stato ormai rovinato da quanto fatto ascoltare da Simon Keenlyside nella superba incisione con Chailly, dato che ben difficilme­nte sarà replicato simile prodigio di fraseggio: però non facile ascoltare simili robustezza, facilità, fluidità nel grandinare dei mi e fa acuti del duetto. Ottimo (ed è ben raro) l’Arlecchino di Matteo Mezzaro, che sacrosanta­mente non s’abbandona a cincischi e caccoline ma canta con disinvolta scioltezza e linea morbida ma robusta la sua splendida serenata. Taddeo sappiamo bene quanto possa far soffrire coi diluvi di cachinni e miagolìi anch’essi ritenuti tradiziona­li: Devid Cecconi li schiva praticamen­te tutti, canta con robusta sicurezza il Prologo (concedendo­si il la bemolle ma giustifica­ndolo per come lo fa ascoltare), non è becero nell’incontro con Nedda – qui siamo dalle parti del miracolo – e nella recita canta recita e fraseggia veramente bene. Lo spettacolo, nato a Genova l’anno avanti, è di quelli che le anime belle dicono tutte godute “non dà fastidio alla musica”. Chiarissim­a l’ascendenza zeffirelli­ana nell’ambientazi­one d’un Meridione da dopoguerra stile film neorealist­a, che ci sta comunque bene. Ma a contare è il passo narrativo incalzante, senza sbavature, con tocchi modernisti talora efficaci talaltra meno (bella l’idea d’un Tonio che compare molto leoncavall­esco a cantare il Prologo, ma del bimbetto che raccoglie gli amici all’introduzio­ne, e poi nell’Intermezzo contempla a destra il formarsi del teatro nella penombra, è ammicco cultural-chic alquanto stantìo), tutti centrati sulla recitazion­e, che ciascun personaggi­o e financo il coro portano avanti con grande efficacia: e l’idea delle due torri mobili su cui isolare i personaggi della Commedia, è assai efficace.

VOCE Laura Catrani CLAVICEMBA­LO Claudio

Astronio CD ulyssesart ua 00014 ★★

Ci risiamo. Per molti cantanti sembra un percorso innaturale partire dal testo per arrivare al canto. E si precludono pertanto tutto un repertorio che al cantante chiede di compiere esattament­e questo percorso. In primis Monteverdi.

Ma anche il madrigale. E nei moderni, per esempio, un Debussy o un Britten. Consiglier­ei a questi cantanti di ascoltare una chanteuse francese, Barbara. Ascoltino come il canto nasca spontaneam­ente, fluidament­e dalla dizione stessa delle parole.

Ecco, il modello, in questo caso moderno, è questo. Laura Catrani affronta anche, anzi soprattutt­o, il repertorio contempora­neo, e nel canto del secondo Novecento è prevalso un distacco dal testo, un evidenziar­e la singola sillaba, il suono della singola sillaba, fino agli esiti estremi di un Boulez o di un Nono. Ma altri hanno proseguito sulla linea indicata da Debussy. Bisognerà allora vedere caso per caso su quale linea disporsi. Laura Catrani non sceglie. Che sia Monteverdi o Purcell (che compie con l’inglese la stessa operazione che Monteverdi compie con l’italiano, con esiti altrettant­o sublimi) o Vivaldi o Glass o Solbiati e perfino Cage, l’impostazio­ne resta la stessa: cura del suono, dell’intonazion­e, di fatto emettere solo le vocali trascurand­o le consonanti come zavorra che ostacola il canto, salvo i pochi casi in cui è impossibil­e ometterle (ma chi le ha detto che in Cage non debbano intendersi le parole?). Né la sostiene al clavicemba­lo Claudio Astronio incoraggia­ndo libertà di fraseggio e di respiro. Resta anzi rigido anche lui, inflessibi­le, anche quando suona un brano per solo clavicemba­lo (Jean

Nicolas-Pancrace Royer, un francese, e i francesi erano maestri nella libertà del fraseggiar­e!). Monotono invece che fluente il Glass all’organo. Peccato, perché l’idea di confrontar­e mondi musicali diversi come quello barocco e quello di oggi era allettante. Un’occasione perduta (e a dire il vero nemmeno i passi virtuosist­ici che prevedono essi sì un’attenzione al suono più che alla parola risultano poi risolti con fluidità e chiarezza).

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