Il canto di Fatma Said per le generazioni arabe “escluse” dai teatri
Il soprano Fatma Said accosta “Don Giovanni” e Bizet ai compositori egiziani. Un modo per diffondere la tradizione europea tra le seconde generazioni di lingua araba, che rischiano di essere escluse da un intero patrimonio musicale
Si prepara già a vestire i panni di Zerlina e a ricevere le pressanti avances di uno spudorato Don Giovanni. Per la giovane cantante egiziana, la ventinovenne Fatma Said, quelli che verranno saranno mesi importanti: a febbraio 2021 debutterà al San Carlo di Napoli, nel ruolo dell’ingenua contadina dell’opera mozartiana, sotto la direzione di Riccardo Muti. Il 16 ottobre, invece, vedrà la luce per l’etichetta Warner Classics il suo disco, “El Nour”, realizzato con il pianista Malcolm Martineau e il chitarrista Rafael Aguirre. Un lavoro nel quale brani di compositori francesi, come Bizet e Berlioz, dialogano con la Spagna di Manuel de Falla e le sonorità orientali di compositori egiziani come Gamal Abd al-Rahim. Per Fatma, che è un po’ cittadina del mondo, diplomata alla Hanns Eisler Hochschule di Berlino e poi studente dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, la musica non è solo fare memoria della propria tradizione, ma è anche mettere insieme quelle sonorità che dall’Oriente si dipanano altrove. Un tramite tra due mondi.
El Nour letteralmente in italiano sta per “la luce”. Cosa intende illuminare?
“Noi cantanti lirici siamo abituati ad interpretare composizioni del passato o magari del presente, ma certamente ben definite ed eseguite per come è scritto sulla partitura. Il mio intento, invece, è quello di fare luce sulla musica egiziana, spesso sconosciuta per gli europei, e sulla musica europea, sconosciuta nel mondo arabo. Perché il mio popolo, la mia parte del mondo, non conosce né Bizet e né de Falla, ed è proprio attraverso la musica egiziana che il mio popolo potrebbe ascoltare Shéhérazade di Ravel. E viceversa in Europa, si può fare luce sulla musica della mia terra. Per questo ho cercato di reinterpretare a modo mio le musiche scelte per il disco evidenziando il loro lato più arabo”.
Che cosa hanno in comune Manuel de Falla, Federico Garcia Lorca, Georges Bizet e Gamal Abd al-Rahim?
“La musica, intesa nel senso più stretto e profondo del termine. Ad esempio in Sevillanas del siglo XVIII di Lorca, canzone che parla di Siviglia, c’è una vicinanza molto forte con la cultura araba ed il bello è proprio che non si tratta solo una questione di note. Ricordo che due anni fa, durante un viaggio a Malaga, in Spagna, mi è capitato di sentirmi quasi come se fossi al Cairo. Giravo per le strade e guardando l’architettura dei monumenti, osservando la cultura e sentendo gli odori, percepivo la dominazione araba nella penisola iberica, quando tanti arabi, emigrati in Spagna, hanno creato l’Andalusia. Questo mi ha portato a riflettere sull’esistenza di un triangolo che include Spagna, Francia del sud e Nord Africa. Ecco spiegata la similitudine che esiste tra la cultura musicale araba e quella occidentale. Se si ascoltano di seguito due brani del mio disco come Adieux de l’hôtesse arabe di Bizet prima, e Aatini Al Naya Wa Ghanni dopo, si può riscontrare una certa continuità. E per di più sono entrambi nella stessa tonalità, in La minore. Sembrano davvero far parte dello stesso mondo”.
Un triangolo di sonorità declinato attraverso la chitarra classica, protagonista del disco, oltre alla voce. Come mai questo strumento?
“È stata una scelta sperimentale. La mia idea era quella di provare sonorità nuove, per dire che ‘luce’ è anche sentire lo stesso brano come se lo si stesse ascoltando la prima volta, creando quindi nuove atmosfere per composizioni che sono state eseguite milioni di volte nel mondo. La chitarra classica è uno strumento sottovalutato. Tra l’altro, è bene ricordare che gli strumenti a corde sono stati gli accompagnatori della voce ancor prima del pianoforte. Già ai tempi dei faraoni, la voce aveva al suo fianco arpe e strumenti a corde”.
Come è nata, in Egitto, la sua passione per il canto?
“Ho cominciato a cantare a scuola durante le ore di musica. Cantavo insieme ai miei compagni nel coro del liceo, eseguivamo brani di Schubert, Brahms e Haydn. Però la passione per la lirica è nata quando il mio maestro del coro mi consigliò di studiare con la sola insegnante di canto presente al Cairo, Neveen Allouba, che divenne la mia maestra. Sono cresciuta in una cultura dove la passione per il canto non era considerata come cosa normale, anzi, era vista come una scelta non proficua ai fini di un futuro lavorativo. Una sera mio padre invitò a cena la mia insegnante di canto e, in modo piuttosto serio, le chiese se avesse avuto senso mandarmi a studiare canto in Europa. Premetto che nella mia famiglia nessuno era musicista e nessuno aveva idea di cosa volesse dire fare musica. La mia maestra rispose di sì, senza esitazione: valeva la pena farmi studiare canto in Europa. Questa decisione inizialmente suscitò scalpore nella mia famiglia. Ero molto giovane, avevo diciassette anni, dovevo fare la scelta di andare a vivere da sola, e in Egitto nessuna ragazza lascia la propria famiglia tranne che per il matrimonio. Diversi miei parenti, infatti, erano contrari. Mio padre però voleva che io facessi ciò che mi piaceva di più, convinto del fatto che seguire una vera passione avrebbe potuto condurmi a buoni risultati. E così, anche se la mia partenza non era mirata ad un futuro lavorativo come medico o come fisico, la mia famiglia
ha accettato questo percorso. E andai in Germania a studiare canto alla Hanns Eisler Schule di Berlino e poi a Milano, all’Accademia del Teatro alla Scala”.
Come ha vissuto il lockdown?
“Come un un periodo difficile, una grande sfida. Ad un certo punto quando non si vedeva più la speranza di tornare presto a cantare sul palco, bisognava inventarsi delle motivazioni per studiare e per continuare con i vocalizzi. Un cantante dopotutto non può smettere di cantare per quattro o cinque mesi di fila. Ad incoraggiarmi è stato sempre mio padre: mi ha detto che quando sarà finita la pandemia, il mondo sarà pronto per tutti coloro che al momento giusto sapranno ripartire. Lui è stato un nuotatore agonistico, ha anche partecipato ai giochi olimpici del 1984, il suo è stato certamente un paragone fatto con il mondo dello sport”.
Giovanissima, ma col pensiero ai diritti umani. Nel 2014 ha cantato alle Nazioni Unite a Ginevra, al fianco di Juan Diego Flórez.
“È bellissimo cantare nei teatri del mondo, ma quando si può cantare per temi importanti è certamente più bello. La musica unisce popoli con culture, lingue e religioni diverse. Attraverso la musica si può essere più legati in un momento storico difficile per il mondo, come lo è il nostro. Non parlo solo del tema del razzismo perché non c’è solo quello. Fare musica per me è un modo per comunicare tante cose che spesso non siamo in grado di dire con le parole”.
E nel farlo, c’è una figura da cui trae ispirazione?
“Ci sono tanti grandi cantanti da cui imparo. Anzitutto Maria Callas, un personaggio che mi interessa approfondire, non solo come artista ma anche come persona, perché ritengo sia stata una donna con tanto da insegnare. Ha messo la sua anima in qualsiasi frase che ha cantato. Non occorre, infatti, necessariamente essere un esperto di lirica per apprezzarla, la sua voce arriva in tutti i cuori. In tre parole: credibile, originale e molto onesta”.
Durante il suo periodo all’Accademia del Teatro alla Scala è stata Pamina, nel Flauto Magico, per la direzione di Ádám Fisher, col quale lei ha instaurato un legame particolare. In cosa consiste il segreto di questa intesa?
“Credo che stia nel fatto che lui asseconda il mio istinto, lascia che io sia me stessa e al contempo però mi dice cosa va bene e cosa no. Tutto è cominciato in occasione di quel Flauto Magico, poi il maestro mi invitò al festival di Haydn, l’Haydn Festspiele Eisenstadt, vicino Vienna e poi ancora a Düsseldorf alla Tonhalle. La nostra intesa nasce da piccole cose. Ad esempio, sul palco ho una brutta abitudine, chiudo spesso gli occhi mentre canto. Questa è una cosa che i direttori d’orchestra di solito non apprezzano. Il maestro Fisher una volta, poco prima di entrare in scena, mi ha chiamata e mi ha chiesto se erano chiari per me i suoi gesti direttoriali. Io mi scusai, perché non potevo rispondere a questa domanda, poiché avevo sempre gli occhi chiusi mentre lui dirigeva. Lui mi disse che era esattamente quello che voleva sentirsi dire, e che a lui stava benissimo che io fossi completamente concentrata e immersa nella musica”.
Mozart sarà adesso al centro di un suo prossimo debutto…
“Debutterò a febbraio prossimo nel ruolo di Zerlina, nel Don Giovanni, al San Carlo di Napoli. Sarà un grandissimo onore per me poter lavorare con un maestro come Riccardo Muti. Mi sento molto onorata di essere stata scelta per questo ruolo. Lui è un genio”.