Classic Voice

Una rima può cambiare il senso della musica

Suono e parola. Ritmo e significat­o. Dall’unione di queste due dimensioni nasce il senso della grande produzione vocale. Che i compositor­i traggono dalla poesia. Interpreta­ndola in modi sempre diversi

- di Dino Villatico

“Dolce e chiara è la notte e senza vento”. Comincia così La Sera del dì di festa di Giacomo Leopardi. Con una bellissima succession­e di trochei (– – interrotta, dopo il primo trocheo, da un dattilo (– chiara è la... Ritmo dunque costante e regolare. Come quello del verso che chiude il quinto (∪ canto dell’Inferno: e caddi come corpo morto cade. Che però ha un attacco giambico –), una sillaba breve - - alla quale segue una succession­e regolare di cinque trochei. Ecco: la poesia si costruisce proprio così: con un ritmo. Non a caso dunque gli antichi greci – ma con loro anche gli indiani, gli arabi – intesero musica e poesia come attività congiunte. La poesia aggiunge alla musica ciò che le manca: un contenuto. Ma la musica, a sua volta, conferisce alla poesia il suo carattere distintivo: il ritmo. Con l’emancipars­i della musica strumental­e sembrò ad alcuni che la musica fosse priva di senso – alla lettera, mancante del senso delle parole – e ad altri, invece, che assorbisse dal testo inflession­i capaci di significar­e sentimenti, ma anche concetti, perfino in assenza di un testo. La vaghezza anzi dell’allusione, che si percepisce in una musica strumental­e, finirebbe per aggiungere un motivo di fascino in più. In questa perenne tensione tra senso e assenza di senso, tra precisione del concetto, espresso dalle parole, e vaghezza del sentimento, suggerito dalla musica, la musica vocale dal tardo rinascimen­to in poi ha sviluppato tutta una serie di convenzion­i retoriche, di corrispond­enze tra musica e parola, che per qualcuno sono diventate una sorta di seconda natura della musica. Vediamone qualche esempio. Ecco una poesia di Goethe:

Die Vögelein schweigen im Walde. Warte nur, balde Ruhest du auch.

Alcuni compositor­i si sono lasciati tentare dal metterla in musica. Tra questi, Schubert e Liszt. La poesia affida l’efficacia del suo messaggio anche a un uso sapiente delle rime. Ruh, pace, fa rima con du, tu. Hauch, respiro, fa rima con auch, anche. Le altre rime alludono all’altezza, all’inaccessib­ilità del luogo: Gipfeln, vette, Wipfeln, cime degli alberi. Il bosco è evocato al terzo verso che segue, Walde, e fa rima con balde, presto. Il bosco è il luogo della distanza, del silenzio, dove “presto” riposerà anche il poeta. E qui si coglie l’abisso della rima Waldebalde: il bosco è il luogo dei morti dove presto andrà anche il poeta. Sia Schubert sia Liszt colgono lo spartiacqu­e della poesia: Hauch, respiro, il Lied ha in quel punto una sosta. Ma mentre Schubert introduce fin dall’inizio il senso della morte, scandendo il ritmo della marcia funebre, dattilo più spondeo (– –), già nell’introduzio­ne pianistica, Liszt vuole invece introdurci nel senso di calma offerto dal silenzio del bosco. Abbiamo un seguito di accordi di minima che scandiscon­o un ritmo lento, regolare. Dopo che la voce intona la parola Hauch, respiro, il Lied si anima, il silenzio del bosco sembra terrifican­te, e solo quando il poeta si incita all’attesa del riposo, balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, che la voce ripete più volte, dapprima in maniera concitata e via via sempre più calma, si torna alla quiete iniziale degli accordi di minima. Ora, se il cantante non fa percepire distintame­nte quel Ruh, pace, che fa rima con du, tu, quella sosta su Hauch, respiro, che fa rima con l’ultima parola della poesia, auch, anche, come potrà l’ascoltator­e capire l’interpreta­zione diversa dei due compositor­i? Il senso di morte, anzi quasi il desiderio della morte, in Schubert; la paura della morte in Liszt. Come percepirà il senso dell’ansito lisztiano, della sua frenesia, se non sente distintame­nte che la frase balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, si ripete più volte? E veniamo a un secondo esempio, mozartiano. È l’aria di Elettra, nel terzo atto dell’Idomeneo, in cui ella sfoga tutto il suo furore di amante respinta. L’aria è preceduta da un lungo, drammatico recitativo. Ecco il testo: Oh smania! oh furie! oh dispera ta Elettra! ... Addio amor, addio speme! Ah, il cor nel seno già m’ardono

l’Eumenidi spietate Misera a che m’arresto? Sarò in queste contrade della gioia e trionfi spettatric­e dolente? Vedrò Idamante alla rivale in braccio? e dell’uno e dell’altra mostrarmi a dito? ... Ah no, il germano Oreste ne’ cupi abissi io vuò seguir. Ombra infelice! lo spirto mio accogli, or or com pagna m’avrai là dell’inferno, a sempiterni guai, al pianto eterno. D’Oreste, d’Aiace ho in seno i tormenti, d’Aletto la face già morte mi dà. Squarciate­mi il core, ceraste, serpenti, o un ferro il dolore in me finirà. Mozart già immette la tempesta nell’orchestra. Ma sia il recitativo accompagna­to che l’aria sono una riassunzio­ne totalmente stravolta, reinventat­a, sinfoniciz­zata - e qui Gluck avrò avuto il suo peso - del modello d’aria d’ira. Certo, la musica è già teatro, l’orchestra fa già capire l’esplosione di rabbia di una donna disperata (chi sa che perfino Verdi non abbia tenuto presente quest’aria per certe sue furiose cabalette). Ma la comprensio­ne del testo non è indifferen­te alla comprensio­ne della situazione drammatica e del carattere del personaggi­o. Certo, bisogna anche conoscere che Elettra è sorella di Oreste e che Oreste dopo il matricidio impazzisce. Ma ci sono dei punti in cui Elettra dice cose importanti, manda messaggi chiari allo spettatore. “Vedrò Idamante alla rivale in braccio?”. Se la cantante non dice chiarament­e queste parole come capisce il pubblico che sta assistendo a uno scoppio di gelosia? E dopo: “compagna / m’avrai là dell’inferno, / a sempiterni guai, al pianto eterno”. E così, l’attacco dell’aria, in cui Elettra rievoca i “tormenti” del fratello e di Aiace, se non ne percepiamo il nome, come facciamo a sapere che si sente impazzire come il fratello e che è tentata di suicidarsi come Aiace ( e qualche regista, infatti, le fa trafiggers­i il seno con un pugnale o addirittur­a spararsi un colpo di pistola alla tempia)? E non si dimentichi che proprio mentre stava lavorando all’Idomeneo Mozart, in una lettera al padre, dice che il musicista drammaturg­o deve stare attento alla “forza della parola”, e usa proprio l’espression­e italiana. D’altra parte il pubblico dei teatri europei, nel Settecento, conosceva l’italiano. Come si vede, il rapporto tra testo e musica è assai complesso, di epoca in epoca e di compositor­e in compositor­e. Ma ciò che l’interprete non dovrà mai dimenticar­e, né tanto meno trascurare, è quale tipo di rapporto il compositor­e stabilisca di volta in volta tra testo e musica. Non esiste, infatti, un unico modo d’interpreta­re un canto perché non esiste un solo tipo di rapporto tra testo e musica nei canti. La libertà d’interpreta­zione finisce quando l’interpreta­zione travalica o snatura il rapporto voluto dal compositor­e. In genere, ciò che dà fastidio, in molti interpreti di oggi, è la prospettiv­a quasi unicamente musicale con cui è letta una partitura in cui venga intonato un testo. Come se qualsiasi canto possa essere cantato nello stesso modo e come se il rapporto tra testo e musica sia sempre lo stesso e sia sempre la musica a guidare la voce. Ora, il prevalere di una lettura puramente musicale può essere sopportabi­le in certa musica vocale in cui la musica travolge davvero il testo, per esempio in certe arie di Handel o di Rossini. Ma fino a un certo punto, anche in Handel e Rossini, perché anche lì il tipo di elaborazio­ne musicale nasce proprio dal testo, dalle immagini del testo. E anche qui, non si fraintenda l’impostazio­ne che il musicista pretende da parte dell’interprete. Non si tratta di far capire le parole all’ascoltator­e. O non solo di questo si tratta. Si tratta, e ciò riguarda la struttura stessa della pagina, prima ancora che la sua interpreta­zione, si tratta da parte dell’interprete di farsi carico dell’intenzione del compositor­e. È l’interprete che deve capire quale rapporto ci sia tra la parola e il canto, proprio perché canti la parte come il compositor­e l’ha pensata, e ciò vale per Monteverdi, come per un Lied di Schubert o di Schumann o una chanson di Debussy. Il cantante non deve dimenticar­e mai che questi musicisti erano appassiona­ti lettori di poesia e che una poesia la intonano proprio per cavarne fuori il suo messaggio più segreto. Petrarca per Monteverdi, Goethe per Schubert, Verlaine per Debussy non sono pretesti per intonare una qualsiasi canzone, ma testi, poesie, di cui mettere in risalto le qualità musicali che una semplice lettura non rileva. Ma sia per Monteverdi, sia per Schubert, sia per Debussy, le poesie di Petrarca, Goethe, Verlaine sono già musica, e non parole inerti che abbiano bisogno di trovare il canto. (fine seconda parte. La prima è stata pubblicata nel numero precedente)

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 ??  ?? Über allen Gipfeln Ist Ruh; In allen Wipfeln Spürest du Kaum einen Hauch;
Über allen Gipfeln Ist Ruh; In allen Wipfeln Spürest du Kaum einen Hauch;
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Angelika Kauffmann “Allegoria della Poesia e della Musica con autoritrat­to” (1782)

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