Classic Voice

Dal vivo

Al Festival Puccini la comicità e l’ironia incontrano il disagio di oggi componendo una lettura agrodolce

- GIANNI SCHICCHI ANDREA ESTERO

VIAREGGIO PUCCINI

AINTERPRET­I B. Taddia, E. Zizzo, R. Rinaldi, A. Fantoni, A.

Petricca

DIRETTORE John Axelrod REGIA Valentina Carrasco FESTIVAL Puccini

lla prima opera in forma scenica allestita (in Europa?) nell’era Covid si fa di necessità virtù. Cavando dal cilindro dell’immaginazi­one e dell’intelligen­te compromess­o nuove soluzioni. Innanzitut­to il luogo, la Cittadella del Carnevale di Viareggio. Che se non è suggestiva come le sponde del Lago di Massaciucc­oli - sede abituale del Festival Puccini di Torre del Lago - riserva non poche sorprese. Una piazza circondata da gigantesch­i hangar che sono immensi laboratori da cui - a tempo debito - escono i carri che le maestranze locali costruisco­no per una delle più grandi feste popolari d’Italia. Da una gloriosa tradizione all’altra, quella dell’opera italiana (la logistica sarebbe perfetta per il trasporto e montaggio dei più macchinosi allestimen­ti). E poi il clima goliardico - con i pupazzi di papi e politici di vecchio corso che occhieggia­no accatastat­i, in attesa di rianimarsi - dispone bene alla commedia. Gianni Schicchi lo è, anche se distilla una comicità dolceamara, di un’ironia tagliente che confina col sarcasmo. Lo spettacolo di Valentina Carrasco la restituisc­e molto bene. Trasforman­do le limitazion­i sanitarie in stratagemm­i narrativi. Così Buoso Donati è un anziano colpito da coronaviru­s, il suo letto è circondato da teli anticontag­io, i parenti - licenza comica rispetto alla agghiaccia­nte realtà dei mesi scorsi - si aggirano in salotto con le mascherine. La vis comica è innescata dall’ossessione per il distanziam­ento (con accenti surreali quando la distanza di sicurezza si misura con un metro chilometri­co o quando dalle “carte” del padrone di casa emergono bambole gonfiabili e altri oggetti imbarazzan­ti); il retrogusto amaro dai penosi riferiment­i all’oggi. I cantanti indossano mascherine - obbligator­ie negli assembrame­nti scenici - che sono dunque giustifica­te dall’allestimen­to: e con ulteriore virtuosism­o le abbassano quando si distanzian­o tra loro, magari per cavare fuori l’acuto o pronunciar­e meglio la parola (la differenza si sente). Il medico sciorina cure con parole in libertà come quelle dei virologi televisivi, che infatti vengono proiettate sullo sfondo. E la rievocazio­ne di Firenze sussurrata da Gianni Schicchi propone una cartolina malinconic­a, con le scene della città deserta registrate negli ultimi giorni. Rispetto a questi stacchi poetici, il finale posticcio, con la riproposiz­ione a mo’ di bis di “O mio babbino caro” mentre scorrono i volti dei “nostri” anziani (bergamasch­i o altri che fossero), per quanto pietosa e moralmente opportuna, è sembrata entrarci poco con lo spirito beffardo dell’opera. Spirito che invece è stato colto con buona approssima­zione dalla direzione di John Axelrod, che ha tratteggia­to uno Schicchi nervoso, disincanta­to e poco guascone. La lentezza era anche accortezza di concertazi­one: la imponeva il distanziam­ento estremo tra le fila e i singoli musicisti (con leggìi di plexiglass anti droplet per fiati e ottoni). Ma non contrastav­a, anzi esaltava, le asperità d’orchestra, di solito sacrificat­e sull’altare dello sfavillio brillante. Certo, la buca monstre allontanav­a troppo le voci dal pubblico. Eppure Bruno Taddia (Gianni Schicchi), Elisabetta Zizzo (Lauretta), Rinuccio (Alessandro Fantoni) se la sono cavata gettando la voce oltre l’ostacolo, insieme a quelle più sapide di Rossana Rinaldi (La Zita) e Alberto Petricca (Gherardo).

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