Dal vivo
Al Festival Puccini la comicità e l’ironia incontrano il disagio di oggi componendo una lettura agrodolce
VIAREGGIO PUCCINI
AINTERPRETI B. Taddia, E. Zizzo, R. Rinaldi, A. Fantoni, A.
Petricca
DIRETTORE John Axelrod REGIA Valentina Carrasco FESTIVAL Puccini
lla prima opera in forma scenica allestita (in Europa?) nell’era Covid si fa di necessità virtù. Cavando dal cilindro dell’immaginazione e dell’intelligente compromesso nuove soluzioni. Innanzitutto il luogo, la Cittadella del Carnevale di Viareggio. Che se non è suggestiva come le sponde del Lago di Massaciuccoli - sede abituale del Festival Puccini di Torre del Lago - riserva non poche sorprese. Una piazza circondata da giganteschi hangar che sono immensi laboratori da cui - a tempo debito - escono i carri che le maestranze locali costruiscono per una delle più grandi feste popolari d’Italia. Da una gloriosa tradizione all’altra, quella dell’opera italiana (la logistica sarebbe perfetta per il trasporto e montaggio dei più macchinosi allestimenti). E poi il clima goliardico - con i pupazzi di papi e politici di vecchio corso che occhieggiano accatastati, in attesa di rianimarsi - dispone bene alla commedia. Gianni Schicchi lo è, anche se distilla una comicità dolceamara, di un’ironia tagliente che confina col sarcasmo. Lo spettacolo di Valentina Carrasco la restituisce molto bene. Trasformando le limitazioni sanitarie in stratagemmi narrativi. Così Buoso Donati è un anziano colpito da coronavirus, il suo letto è circondato da teli anticontagio, i parenti - licenza comica rispetto alla agghiacciante realtà dei mesi scorsi - si aggirano in salotto con le mascherine. La vis comica è innescata dall’ossessione per il distanziamento (con accenti surreali quando la distanza di sicurezza si misura con un metro chilometrico o quando dalle “carte” del padrone di casa emergono bambole gonfiabili e altri oggetti imbarazzanti); il retrogusto amaro dai penosi riferimenti all’oggi. I cantanti indossano mascherine - obbligatorie negli assembramenti scenici - che sono dunque giustificate dall’allestimento: e con ulteriore virtuosismo le abbassano quando si distanziano tra loro, magari per cavare fuori l’acuto o pronunciare meglio la parola (la differenza si sente). Il medico sciorina cure con parole in libertà come quelle dei virologi televisivi, che infatti vengono proiettate sullo sfondo. E la rievocazione di Firenze sussurrata da Gianni Schicchi propone una cartolina malinconica, con le scene della città deserta registrate negli ultimi giorni. Rispetto a questi stacchi poetici, il finale posticcio, con la riproposizione a mo’ di bis di “O mio babbino caro” mentre scorrono i volti dei “nostri” anziani (bergamaschi o altri che fossero), per quanto pietosa e moralmente opportuna, è sembrata entrarci poco con lo spirito beffardo dell’opera. Spirito che invece è stato colto con buona approssimazione dalla direzione di John Axelrod, che ha tratteggiato uno Schicchi nervoso, disincantato e poco guascone. La lentezza era anche accortezza di concertazione: la imponeva il distanziamento estremo tra le fila e i singoli musicisti (con leggìi di plexiglass anti droplet per fiati e ottoni). Ma non contrastava, anzi esaltava, le asperità d’orchestra, di solito sacrificate sull’altare dello sfavillio brillante. Certo, la buca monstre allontanava troppo le voci dal pubblico. Eppure Bruno Taddia (Gianni Schicchi), Elisabetta Zizzo (Lauretta), Rinuccio (Alessandro Fantoni) se la sono cavata gettando la voce oltre l’ostacolo, insieme a quelle più sapide di Rossana Rinaldi (La Zita) e Alberto Petricca (Gherardo).