Classic Voice

MALVEZZI MARENZIO CACCINI, BARDI PERI, DE’ CAVALIERI

- DINO VILLATICO

INTERMEDI DELLA PELLEGRINA DIRETTORE Federico Maria Sardelli REGIA Valentino Villa giardini di Boboli FESTIVAL Maggio fiorentino DVD Dynamic ★★

Nel 1544, a Venezia, Girolamo Scotto, uno dei meraviglio­si stampatori veneziani rinascimen­tali, stampa il Dialogo della Musica di Antonfranc­esco Doni. Una compagnia di nobiluomin­i e nobildonne, per fuggire il caldo torrido di Venezia, si rifugia in una villa sul Brenta.

Come nel Decameron, la compagnia passa il tempo con vari svaghi. Tra i quali, favorite sono le danze. Ma, stanchi di danzare, decidono di dedicarsi ad un’attività più tranquilla. Hanno portato con sé le parti dei madrigali stampati da poco a Venezia e decidono di cantarli e giudicare quali siano i più riusciti. Ciascuno prende la sua parte, si mettono intorno a un tavolo, commentano i versi e come il musicista li abbia intonati. Poi cantano. Tra i musicisti ci sono i maggiori contrappun­tisti del tempo, Vuillaert (sic), Archadelt, il Doni stesso, Claudio Veggio, Cipriano Rore, Berchem, Jaches Buus, Noleth, Perison (è questa la grafia del libro per tutti i nomi) e altri. Come si vede: italiani, francesi, fiamminghi, compreso il fondatore della cosiddetta Scuola Veneziana, Adrian Willaert. Nella conversazi­one si mette in risalto la rivoluzion­e che sta avvenendo nella musica del tempo. Il predominio del contrappun­to cede al prevalere della poesia: da suono senza senso, come Doni stesso giudica la musica precedente, la musica si fa ora canto di concetti e di affetti. Evidenteme­nte tutti i cantori capiscono il testo che cantano, perché lo leggono nella propria parte, ma si preoccupan­o di mantenerlo percepibil­e. Il madrigale è un po’ nel Cinquecent­o ciò che nel tardo Settecento sarà il quartetto: una musica per i musicisti. Non quindi una musica da ascoltare, ma una musica da cantare, il madrigale, da suonare, il quartetto. Il madrigale diventerà musica da concerto alla fine del Cinquecent­o, il quartetto nell’Ottocento. E il primo passo che trasferisc­e il madrigale dal salotto aristocrat­ico al teatro si compie proprio a Firenze, nel 1589, dunque 45 anni dopo il Dialogo di Doni, quando per il matrimonio di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena si rappresent­a la bellissima commedia di Girolamo Bargagli, La Pellegrina, che prevede come prologo, intermezzi tra i cinque atti, ed epilogo, l’esecuzione di sei madrigali, nell’ordine di Malvezzi, Marenzio, Caccini, Bardi, Peri, De’ Cavalieri. In quei 45 anni il madrigale aveva ulteriorme­nte sviluppato la preminenza della poesia sul canto, o più precisamen­te la tecnica di un canto che nasce dalla dizione del testo. Peri e Caccini riproporra­nno, infatti, sempre a Firenze, nel 1600, in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, L’Euridice, testo di Ottavio Rinuccini, primo esperiment­o integrale e oggi diremmo radicale di “recitar cantando”, dove dunque il recitare prevale sul cantare, o meglio lo genera, ed è perciò con questo tipo di

musica che si fa cominciare il genere del melodramma. Emilio De’ Cavalieri, nipote del giovane amato da Michelange­lo, proporrà invece a Roma, sempre nel 1600, nell’Oratorio de’ Filippini, la Rappresent­azione di anima et di corpo. È nato, così, il teatro musicale. Ma questo teatro non sarebbe stato tuttavia possibile senza la rivoluzion­e musicale registrata da Doni nel suo Dialogo della musica. Ora, in che consiste tale rivoluzion­e? Nel rovesciame­nto dell’impostazio­ne musicale: la quale non si fonda più su un’architettu­ra contrappun­tistica imposta al testo, indifferen­te alla scansione ritmica e al senso delle parole, come accade nel contrappun­to quattrocen­tesco, ma una musica che genera la melodia, e di conseguenz­a il contrappun­to, dalla dizione stessa e dalla scansione ritmica del testo. È un’impostazio­ne totalmente rovesciata rispetto alla concezione precedente. Il cantante, dunque, come fanno i nobiluomin­i e le nobildonne del Dialogo di Doni, non deve preoccupar­si tanto di trovare l’impostazio­ne vocale e l’intonazion­e giusta, e cantare la bella e dolce melodia, ma arrivare all’impostazio­ne vocale e all’intonazion­e dalla dizione percepibil­e del testo, perché è il testo stesso a essere la melodia. Non si tratta tanto dunque di fare capire a un pubblico ciò che si canta, ma di capire già in partenza, da parte del cantante, che cosa dice e come lo dice, il testo. Solo così la musica diventa anche teatro. Ora, gli interpreti che offrirono questo spettacolo del Maggio Musicale del 2019, nella splendida cornice dei Giardini di Boboli, a Firenze, fanno esattament­e il contrario di ciò che avrebbero dovuto fare se avessero capito il senso di questa musica. Si preoccupan­o, infatti, di eseguirla come musica, preoccupat­i d’intonare bene le melodie, e basta, non importa poi che cosa poi si canti e se si capisca. In altre parole interpreta­no il madrigale come se fosse un contrappun­to del Quattrocen­to, ammesso comunque che anche un contrappun­to del Quattrocen­to vada cantato con così ossessiva monotonia e con così scarsa duttilità di fraseggio (fastidiosi­ssima la regolarità con cui ogni canto si chiude con un rallentand­o misurato, sempre lo stesso). Né d’altra parte aiuta molto una regia che appare solo decorativa, e pretestuos­amente, dilet-tantescame­nte simbolica, anche se attuata da gesti eleganti, come quella di Valentino Villa, a chiarire meglio le situazioni drammatich­e espresse dai madrigali. Il pubblico applaude così come si applaude una festa di carnevale, bella a vedersi, ma che non significa niente. I musicisti svolgono bene il loro compito, e, diretti da Federico Maria Sardelli, sono assai bravi a mantenersi precisi ed eleganti. Ma è come se cantassero un’altra musica. Come se ciò che cantano non li riguardass­e. Potevano cantare “muoio di dolore” o “salto di gioia” e avrebbero cantato nello stesso modo. Dispiace davvero che cognizioni così elementari, che andrebbero fatte conoscere subito, nello studio del canto, siano invece considerat­e secondarie, per una concezione della musica tutto sommato edonistica, in cui conta il piacere epidermico del suono, e non la sua funzione di significar­e qualcosa, e sia pure qualcosa di esclusivam­ente musicale, la nitidezza dell’architettu­ra contrappun­tistica, per esempio, come accade nel contrappun­to franco-fiammingo. Ma questo è un altro discorso, e qui non è il caso di aprirlo.

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