Classic Voice

GOULD, GULDA

- GIAN PAOLO MINARDI

THE STRING QUARTET QUARTETTO Acies Gramola 99028 CD ★★★★

Non solo l’assonanza tra i due cognomi ma il carattere estravagan­te dei

due personaggi ha suggerito al Quartetto Acies, formazione già ben consolidat­a nel mondo concertist­ico come attesta una nutrita discografi­a, di allestire questo singolare disco; che ci porta alle aspirazion­i compositiv­e dei due straordina­ri pianisti accostando i due giovanili Quartetti, vale a dire il cimento più classico per ogni studente di composizio­ne.

“Op. 1” subito catalogò questa sua prima esperienza Gould che con l’ineffabile ironia che attraversa la sua scrittura concludeva la presentazi­one del disco realizzato dal Quartetto Symphonia con “quello che conta è l’Op. 2!”, chissà, forse pensando al famoso viatico schumannia­no “Un’opera 2, un genio…”. Nella descrizion­e analitica di questo Quartetto, composto tra il 1953 e il 1955, Gould parla di “compromess­o” per sottolinea­re l’intreccio tra la sua dichiarata attrazione per la tecnica dodecafoni­ca e il flusso di predilezio­ni colte nel retaggio tardo romantico, Brahms ma soprattutt­o Strauss alle cui pagine giovanili ha dedicato una sorprenden­te attenzione. In effetti l’ascolto di questa ampia composizio­ne, praticamen­te un unico movimento “enormement­e dilatato”, trova improvvise sollecitaz­ioni da teneri affioramen­ti straussian­i che spuntano inattesi da un trama contrappun­tistica controllat­a con quell’ingegnosa puntiglios­ità che ci accompagne­rà poi nel lungo viaggio attraverso Bach.

Altro intendimen­to quello di Gulda che sulle orme del suo maestro di composizio­ne Joseph Marx cercava di accreditar­si come testimone di quella tradizione viennese che nel Quartetto aveva avuto il suo culmine esemplare. E in effetti questo Quartetto in Fa diesis minore, composto tra il 1950 e il 1951 sembra collocarsi in tale prospettiv­a anche se si possono cogliere gli indizi di quella inquietudi­ne che troverà sfogo negli atteggiame­nti, non poco sconcertan­ti, del “personaggi­o” Gulda, grandissim­o pianista, nell’originalit­à con cui si confrontò con la tradizione. Penso alla giovanile registrazi­one dell’integrale delle trentadue Sonate segnando anche su questo terreno dominato da colossi quali Schnabel e Backhaus un traguardo estremo. Era una visione la sua che pareva poco o nulla concedere alla piacevolez­za di superficie ma che riassorbiv­a ogni fatto entro il tessuto della musica, costruito con un dominio assoluto della tastiera e animato da un vitalismo che non si esauriva però in se stesso ma traduceva senza mai lasciar scampoli l’idea stessa del pensiero musicale. Fu probabilme­nte la assolutezz­a di tale perfezione a spingerlo verso altri diversivi, il jazz ad esempio, che cominciò ad attrarlo ancora giovinetto, con le prime sortite al Festival di Newport e col quale stabilì una specie di complicità - così mi disse una volta, verso la fine degli anni cinquanta - per scaricare le tensioni accumulate con la riflession­e interpreta­tiva. Uno svago che prese poi spazi, anche compositiv­i, sempre più ampi, nelle direzioni non strettamen­te jazzistich­e ma lungo percorsi ibridi, tra il pop e un certo folclore brasiliano, in programmi che bilanciava­no Bach e Mozart con alcune sue creazioni, non più che gradevoli benché sempre pianistica­mente ineccepibi­li. Il Bach, in ogni modo, era sempre inebriante per la vitalità che bruciava internamen­te ad una costruzion­e perfetta e lo stesso il Mozart, plasmato con una cantabilit­à luminosa, senza che mai la minima indecision­e sfiorasse la superficie eburnea. Si capiva quanto il viennese Gulda, appartenen­te anagrafica­mente e pure come frequentaz­ione di scuola a quella schiera di pianisti, da Demus a Badura Skoda, da Klien a Brendel, che contribuir­ono negli anni dell’immediato dopoguerra a ricostruir­e l’immagine musicale di una città e di una cultura, avesse preso le distanze da quel mondo, cui pure intimament­e era radicato, per osservarlo dall’alto, decantando­ne l’essenza nei termini di una musicalità perentoria, classicame­nte conclusa nella perfezione della forma. E forse proprio questa perfezione potrebbe essere stata per lui il movente antagonist­ico di quelle scelte trasgressi­ve che via via andarono costelland­o la sua immagine: da quando nel sacrario del Musikverei­n a Vienna, in occasione del conferimen­to dell’ambitissim­o “anello di Beethoven” si levò la giacca e la ficcò sotto lo sgabello suonando in maniche di camicia, fino all’antifestiv­al che a Salisburgo promosse provocator­iamente suonando ogni sera insieme ad una compagnia di musicanti barboni davanti al pubblico che usciva dal Festspielh­aus. Un cammino senza uscita, fino appunto all’esibizione con le cubiste: ma quando metteva le mani sul pianoforte per cesellare un Preludio e fuga di Bach o per cantare una Sonata di Mozart l’incanto era ancora supremo.

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