GOULD, GULDA
THE STRING QUARTET QUARTETTO Acies Gramola 99028 CD ★★★★
Non solo l’assonanza tra i due cognomi ma il carattere estravagante dei
due personaggi ha suggerito al Quartetto Acies, formazione già ben consolidata nel mondo concertistico come attesta una nutrita discografia, di allestire questo singolare disco; che ci porta alle aspirazioni compositive dei due straordinari pianisti accostando i due giovanili Quartetti, vale a dire il cimento più classico per ogni studente di composizione.
“Op. 1” subito catalogò questa sua prima esperienza Gould che con l’ineffabile ironia che attraversa la sua scrittura concludeva la presentazione del disco realizzato dal Quartetto Symphonia con “quello che conta è l’Op. 2!”, chissà, forse pensando al famoso viatico schumanniano “Un’opera 2, un genio…”. Nella descrizione analitica di questo Quartetto, composto tra il 1953 e il 1955, Gould parla di “compromesso” per sottolineare l’intreccio tra la sua dichiarata attrazione per la tecnica dodecafonica e il flusso di predilezioni colte nel retaggio tardo romantico, Brahms ma soprattutto Strauss alle cui pagine giovanili ha dedicato una sorprendente attenzione. In effetti l’ascolto di questa ampia composizione, praticamente un unico movimento “enormemente dilatato”, trova improvvise sollecitazioni da teneri affioramenti straussiani che spuntano inattesi da un trama contrappuntistica controllata con quell’ingegnosa puntigliosità che ci accompagnerà poi nel lungo viaggio attraverso Bach.
Altro intendimento quello di Gulda che sulle orme del suo maestro di composizione Joseph Marx cercava di accreditarsi come testimone di quella tradizione viennese che nel Quartetto aveva avuto il suo culmine esemplare. E in effetti questo Quartetto in Fa diesis minore, composto tra il 1950 e il 1951 sembra collocarsi in tale prospettiva anche se si possono cogliere gli indizi di quella inquietudine che troverà sfogo negli atteggiamenti, non poco sconcertanti, del “personaggio” Gulda, grandissimo pianista, nell’originalità con cui si confrontò con la tradizione. Penso alla giovanile registrazione dell’integrale delle trentadue Sonate segnando anche su questo terreno dominato da colossi quali Schnabel e Backhaus un traguardo estremo. Era una visione la sua che pareva poco o nulla concedere alla piacevolezza di superficie ma che riassorbiva ogni fatto entro il tessuto della musica, costruito con un dominio assoluto della tastiera e animato da un vitalismo che non si esauriva però in se stesso ma traduceva senza mai lasciar scampoli l’idea stessa del pensiero musicale. Fu probabilmente la assolutezza di tale perfezione a spingerlo verso altri diversivi, il jazz ad esempio, che cominciò ad attrarlo ancora giovinetto, con le prime sortite al Festival di Newport e col quale stabilì una specie di complicità - così mi disse una volta, verso la fine degli anni cinquanta - per scaricare le tensioni accumulate con la riflessione interpretativa. Uno svago che prese poi spazi, anche compositivi, sempre più ampi, nelle direzioni non strettamente jazzistiche ma lungo percorsi ibridi, tra il pop e un certo folclore brasiliano, in programmi che bilanciavano Bach e Mozart con alcune sue creazioni, non più che gradevoli benché sempre pianisticamente ineccepibili. Il Bach, in ogni modo, era sempre inebriante per la vitalità che bruciava internamente ad una costruzione perfetta e lo stesso il Mozart, plasmato con una cantabilità luminosa, senza che mai la minima indecisione sfiorasse la superficie eburnea. Si capiva quanto il viennese Gulda, appartenente anagraficamente e pure come frequentazione di scuola a quella schiera di pianisti, da Demus a Badura Skoda, da Klien a Brendel, che contribuirono negli anni dell’immediato dopoguerra a ricostruire l’immagine musicale di una città e di una cultura, avesse preso le distanze da quel mondo, cui pure intimamente era radicato, per osservarlo dall’alto, decantandone l’essenza nei termini di una musicalità perentoria, classicamente conclusa nella perfezione della forma. E forse proprio questa perfezione potrebbe essere stata per lui il movente antagonistico di quelle scelte trasgressive che via via andarono costellando la sua immagine: da quando nel sacrario del Musikverein a Vienna, in occasione del conferimento dell’ambitissimo “anello di Beethoven” si levò la giacca e la ficcò sotto lo sgabello suonando in maniche di camicia, fino all’antifestival che a Salisburgo promosse provocatoriamente suonando ogni sera insieme ad una compagnia di musicanti barboni davanti al pubblico che usciva dal Festspielhaus. Un cammino senza uscita, fino appunto all’esibizione con le cubiste: ma quando metteva le mani sul pianoforte per cesellare un Preludio e fuga di Bach o per cantare una Sonata di Mozart l’incanto era ancora supremo.