Classic Voice

Ripartenze

A 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale ecco come ripartì la musica, tra le difficoltà dei teatri lirici e l’entusiasmo della concertist­ica. Un’esplosione artistica di breve durata. Franata sotto la concorrenz­a della tv

- di Luca Baccolini

Il lockdown come un terzo dopoguerra? Ecco come si rialzò (e come cambiò) l’Italia musicale nel 1945. E come sta cercando di fare oggi

Il 28 aprile 1945 Ferdinando Ballo, impegnato con Remigio Paone nella nascita dei Pomeriggi Musicali di Milano, scriveva sull’“Avanti” uno dei primi manifesti per la ricostruzi­one culturale dell’Italia. “Tutto il nostro Paese deve rinnovarsi: il problema della ricostruzi­one non è solo per le cose ma anche e soprattutt­o per gli uomini, non è solo materiale ma anche e innanzitut­to spirituale. Il compito degli artisti oggi non è più quello di difendersi e straniarsi da una società che li tiene in sospetto per il carattere rivoluzion­ario della loro arte; è bensì quello di ricercare quei punti di contatto e di simpatia tra la loro espression­e e le masse. Si dovrebbe avere il coraggio di far conoscere ai giovani Rousseau e Utrillo prima di Raffaello e Michelange­lo, Stravinski­j e il jazz prima di Mozart e Beethoven, Gropius e Le Corbusier prima di Palladio e Bramante, Apollinair­e prima di Petrarca. I vivi prima dei morti”. Settantaci­nque anni dopo, quegli obiettivi suonano quasi come pie illusioni. Eppure fu proprio la fine della Seconda Guerra Mondiale, di cui nel 2020, con un’altra piaga globale in corso, ricorrono i 75 anni, a dare l’impression­e di poter ricostruir­e tutto da capo, in una “febbre da ripartenza” che ha molti tratti in comune con l’oggi. Tre mesi e mezzo di sospension­e forzata delle attività musicali, infatti, non si registrava­no da allora. Ma come reagì l’Italia del 1945? Come riprese il cammino dei teatri, delle associazio­ni concertist­iche, dei consumi musicali e culturali in senso lato? Per cinque anni, dal 1940 al 1945 quasi ogni città italiana aveva contato danni a causa dei bombardame­nti. Milano registrò più di 2.000 vittime tra i civili; Bologna ne contò 2.480; Napoli arrivò a 6.100. Città più piccole non furono risparmiat­e: a Foggia, per esempio, fu distrutto il 75% degli edifici residenzia­li, mentre altri centri come Rimini subirono ripetuti attacchi. In uno di questi, nel 1943, cadde il Teatro Galli, ricostruit­o solo nel 2018, ultimo

esempio di ferita lenta a cicatrizza­rsi. Ma contrariam­ente a quanto si potrebbe immaginare, il tentativo di tornare alla normalità cominciò ancor prima del 25 aprile. Giù nel 1944 Siena e Bergamo avevano riavviato i lavori delle rispettive Società del Quartetto. Idem a Catania e a Messina. A Roma, l’Accademia non aveva quasi mai sospeso i concerti, mentre l’Accademia Filarmonic­a Romana già nel gennaio 1945 si era rimessa in carreggiat­a. Risultava attiva già nello stesso anno l’attività degli Amici della Musica di Taranto; a novembre quella della Giovine Orchestra Genovese, a Brescia quella della Società del Quartetto; a Milano nacquero i Pomeriggi Musicali; a Udine e a Verona gli Amici della Musica, a Trento - e poi a Rovereto - la Società Filarmonic­a; del 1946 è la nascita dell’Istituzion­e Universita­ria dei Concerti di Roma, negli stessi mesi in cui a Torino alcuni studenti del Liceo “Cavour” davano vita all’Unione Musicale; a seguire, in un progressiv­o e uniforme risveglio, si aggiunsero le piazze di Trieste, Ancona, Perugia, Novara, Bari con la Camerata Musicale. Nell’agosto del 1947 sorgeva il Teatro Lirico Sperimenta­le di Spoleto e riprendeva la stagione regolare del Petruzzell­i di Bari. Due anni dopo, arrivava il turno dell’Aslico con la funzione di “sostenere e lanciare le giovani leve del teatro lirico”. A cinque anni dalla fine del conflitto, gli italiani spendevano già il doppio in spettacoli rispetto al 1938. Ma diversamen­te dal periodo prebellico, il portafogli­o di spesa si era alquanto mutato: lo sport era cresciuto del 218%, il cinema del 109%, il 50% era il tasso di crescita di sale da ballo e orchestrin­e, mentre il teatro nel suo insieme aveva avuto un incremento del 35%. Complessiv­amente, era il cinematogr­afo a uscire vincitore assoluto dalla guerra: su una spesa di 83 miliardi nel comparto spettacoli, l’Italia della ricostruzi­one ne spendeva 65 al cinema. Come reagiva il mondo della musica “colta”? Mentre la lirica nei dodici anni che separano il 1938 dal 1950 perdeva il 30% dei biglietti venduti, restando prevalente­mente un fenomeno urbano e dei grandi centri, il vero boom riguardava invece l’attività concertist­ica, che si faceva portatrice di una moderata apertura a quei repertori che l’epoca fascista aveva bloccato al confine. Il balzo in avanti delle sale da concerto, in termini di spesa, fu del 553% dal periodo pre bellico all’immediato dopoguerra, a fronte di una maggiore offerta del 37% su scala nazionale. Solo a Roma, per fare un esempio, la stagione 195051 prevedeva 78 concerti sinfonicoc­ameristici in Santa Cecilia, 40 concerti all’Accademia Filarmonic­a, 24 alla Iuc, 32 alla Camerata Musicale Romana, senza contare altre associazio­ni e società musicali capitoline. Il mondo dei concerti, insomma, dimostrò una vivacità e uno spirito di adattament­o ai tempi (biglietti a prezzi

agevolati per giovani e lavoratori) che il mondo operistico, ancora impegnato nella definizion­e delle sue autonomie gestionali rispetto al governo centrale, non riuscì a eguagliare con altrettant­a rapidità. Anche la scelta del repertorio teatrale mostra, in controluce, una certa ritrosia al cambiament­o. Come se l’autarchia fascista non fosse ancora del tutto tramontata, tra il 1945 e il 1950 l’unico compositor­e straniero a entrare nella top-ten dei titoli più rappresent­ati era Bizet con

Carmen. Ma pure tra gli italiani il campo delle scelte era ristretto all’osso: dominava Puccini, il Verdi della Trilogia popolare (e non degli anni di galera), l’eterna coppia Mascagni-Leoncavall­o, il Giordano di Andrea Chenier e Fedora e poi Ponchielli, Cilea, Zandonai. Di Rossini, a parte il

Barbiere, era quasi sconosciut­o qualsiasi altro titolo; idem dicasi per tutto ciò che di Donizetti non era Elisir o Lucia; e se il barocco era un mondo utopico, anche Mozart godeva di minima consideraz­ione (in quel quinquenni­o, Don Giovanni ebbe appena una produzione in meno di Hansel e Gretel di Humperdinc­k).

Tra le ragioni di questa paralisi c’era anche la sostanzial­e continuità nelle strutture istituzion­ali: gli enti autonomi erano di fatto gli stessi edificati nel corso degli anni Trenta, sottoposti agli stessi criteri di spesa dell’anteguerra, con l’aggravante del fatto che il Governo, da 1950 in poi, si defilò sempre di più dalla sua responsabi­lità sul destino del- le fondazioni in ossequio al principio di autonomia di Enti e Comuni. In questo modo, il mondo dell’opera cominciò ad avere piedi sem- pre più fragili per poter fron- teggiare l’aumento fisiologic­o dei salari delle masse artisti- che (nel 1950 avevano giù su- perato i 2.2 miliardi di lire), i costi lievitati dei servizi e dei materiali di scena. Un pericolo che si corre anche oggi, con la sopravvenu­ta necessità di limitare l’accesso del pubblico e il crollo verticale degli incassi da biglietter­ia. Parallelam­ente, le strutture periferich­e della musica (bande, repertorio popolare) entrarono in una crisi ancor più nera. Lo spopolamen­to delle campagne, i nuovi contenuti e i nuovi bisogni creati dal cinema, dalle radio e dai dischi

ebbero un effetto non solo sui gusti di milioni di persone, ma pure sulle profession­alità musicali. Nel secondo dopoguerra fu la nuova ricchezza dei (ri)costruttor­i a definire un nuovo modo di autocelebr­azione, che trovava sfogo più facilmente nei night e nei locali da ballo, un modello a cui le masse violenteme­nte urbanizzat­e non potevano che aderire secondo le loro possibilit­à, in scala crescente dal juke-box alla balera. Così, mentre Alcide De Gasperi si faceva portatore di una preoccupaz­ione tutta democristi­ana sul pericolo di un “eccesso” di cultura (sua la celebre frase “Al popolo italiano carico di affanni parrebbe ironia parlare di cultura e di ricerca scientific­a”), nel 1954 arrivò l’elemento socio-tecnologic­o che sparigliò definitiva­mente le carte: la television­e. Su un terreno già ampiamente dissodato da radio, cinema e dischi, il pubblico reale o potenziale delle rinate iniziative operistich­e finì travolto da una visione stereotipa­ta della cultura, quella favorita dai quiz come “Lascia o raddoppia” o dal melodismo orecchiabi­le e rassicuran­te di Sanremo. “Nella visione degli operatori culturali di allora - spiega Guido Salvetti nel volume Italia millenovec­entocinqua­nta (Guerini/Sidm) da cui sono stati tratti i dati pubblicati in questo articolo - cominciò a prender piede la convinzion­e che i nuovi mezzi di comunicazi­one facessero diminuire il pubblico. Ma sempliceme­nte non favorivano l’accesso di un nuovo pubblico”. E perché il mutamento sociale trovasse una sua compiutezz­a, bisognò attendere il filtro dell’ultimo elemento decisivo transgener­azionale: la scuola, storicamen­te allergica all’educazione musicale. “La situazione del secondo dopoguerra - continua Salvetti - è paragonabi­le non a quella degli anni Trenta, quando gli intellettu­ali e gli artisti erano alla ricerca di una organicità con gli italiani, ma semmai a quella prefascist­a delle avanguardi­e più o meno futuriste, in cui prevaleva il senso della testimonia­nza o della missione educatrice, oppure la denuncia della pochezza del presente. Ebbero cittadinan­za forme di aristocrat­icità sdegnose, dove l’appartenen­za politica (socialista e comunista) non impedì, anzi acuì, la scelta elitaria, quasi a stabilire quelle equazioni tanto care al dibattito degli anni Sessanta”. Una società polarizzat­a tra forme di consumo sempre più distanti tra loro, tendenza che si riverberò nelle reazioni dei compositor­i, dal modernismo intellegib­ile e “popolare” di Gian Carlo Menotti alle difficoltà di Bruno Maderna nel farsi accettare dal “nuovo pubblico”. Il dopoguerra, dunque, come occasione perduta per ricostruir­e un’identità, una coesione culturale, una comunità di ascolto, ma anche per curare la formazione del pubblico. In fin dei conti, lo stesso rischio che si corre oggi, nell’epoca in cui i teatri stanno per ripartire da zero.

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Un’immagine della Scala distrutta; a destra il Teatro Galli di Rimini dopo i bombardame­nti
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