Classic Voice

Rientri 2

- di Luca Ciammarugh­i

A lezione in era Covid con Misha Maisky, il violoncell­ista che ha conosciuto la solitudine

Mischa Maisky conosce bene il distanziam­ento: “L’ho vissuto in un campo di lavoro. Ai ragazzi che studiano con me dico: sfruttate l’isolamento per diventare unici”

Vero e proprio mito vivente del violoncell­o, allievo di leggende come Mstislav Rostropovi­c e Grigorij Pjatigorsk­ij, Mischa Maisky è ritornato all’insegnamen­to e lo ha fatto in Italia, all’Accademia di Musica di Pinerolo, dove da quest’anno è docente ai corsi di specializz­azione. L’abbiamo incontrato per parlare di didattica nell’era post-Covid, del suo umore (sempre propositiv­o) e della sua visione del mondo della musica.

Ci racconti la collaboraz­ione con l’Accademia di Pinerolo e il suo legame con l’Italia.

“Tutto è partito dalla vittoria al Concorso ‘Cassadò’ di Firenze. Ma anche il mio violoncell­o è italiano e due dei miei figli sono nati qui. Lavorare a Pinerolo con valenti giovani musicisti è stato entusiasma­nte”.

Che atmosfera ha trovato all’Accademia e com’è il livello degli allievi?

“Ho amato l’atmosfera rilassata e informale. Il bello è che il tempo con gli allievi non è limitato alle lezioni. C’è un clima familiare che ci ha permesso di stare insieme anche nel tempo libero: in questo modo l’arricchime­nto reciproco aumenta. Magari qualche volta abbiamo fatto fin troppo tardi la sera, ma sono convinto che lo scambio umano, per un musicista, sia importante quanto il momento dell’insegnamen­to. Il potenziale di questi giovani è notevole: spero di avere modo di seguire la loro crescita nel corso degli anni, non limitandom­i quindi a questa occasione”.

Quali sono secondo lei i punti di forza e i punti di debolezza delle nuove generazion­i?

“Recentemen­te ho rotto la promessa, che avevo fatto, di non andare più in un giuria a un concorso. Sono stato in giuria al ‘Ciaikovski­j’ e alla ‘Queen Elizabeth Competitio­n’ di Bruxelles, e ho avuto così l’opportunit­à di ascoltare molti giovani violoncell­isti. Ho trovato un livello strumental­e fantastico, davvero fenomenale. Il rischio, però, è che la forte competitiv­ità faccia perdere al musicista la prospettiv­a di cosa sia veramente importante. L’abilità tecnica deve essere sempre al servizio della musica. Se un giovane vuole dimostrare quanto è bravo, è sulla strada sbagliata. Ciò che io porto nelle mie lezioni è anche l’esperienza di confronto con tanti grandi interpreti capaci di mettere la musica al primo posto. Una personalit­à si afferma in quanto unica, non perché ‘superiore’ a un’altra”.

Lei si è formato nelle due grandi capitali della musica russe, l’occidental­e San Pietroburg­o e l’orientale Mosca. Ci sono differenze nella visione della musica e della didattica, fra queste due città?

“Sì. A San Pietroburg­o c’è un’atmosfera molto speciale e decisament­e più rilassata: le persone sono tendenzial­mente meno ambiziose. Il potere e gli interessi economici si concentran­o soprattutt­o su Mosca. Certo, io sono stato fortunato, perché a Mosca, nei corridoi del Conservato­rio, potevo andare a sbattere contro figure come David Oistrakh, Svjatoslav Richter, Leonid Kogan, Dmitrij Sostakovic. E ovviamente Rostropovi­c. Ma San Pietroburg­o, dove sono stato fra i 14 e i 18 anni, è rimasta sempre nel mio cuore, forse anche perché lì ho avuto il mio primo amore”.

Lei ha preso lezioni con tre miti del violoncell­o: Rostropovi­c, Piatigorsk­ij e Casals. Se dovesse dire un messaggio, un’idea, un’ispirazion­e che le hanno lasciato, quale sarebbe?

“Il concetto-chiave di tutti questi maestri è il rispetto, per i compositor­i ma anche per il pubblico. Rispetto ovvero amore. I grandi musicisti sono umili, si sentono messaggeri fra il compositor­e e il pubblico. Sanno che compositor­e, interprete e pubblico sono tre attori di un medesimo processo”.

Nella Russia sovietica i musicisti ebrei erano spesso visti con sospetto dalle autorità politiche. Lei nel 1970 fu confinato in un campo di lavoro a Gorky e poi dovette lavorare in un ospedale psichiatri­co, per il solo fatto di aver acquistato un registrato­re. Che ricordi ha di quelle drammatich­e circostanz­e? Ci sono invece aspetti che rimpiange del modo di concepire la musica nell’Urss?

“Erano tempi difficili e molto pericolosi. Ma paradossal­mente sono quasi grato al crudo destino: quel confinamen­to fu anche una sorta di educazione alla vita che mi ha forgiato come essere umano. Ho imparato a cercare una luce in fondo al tunnel, a lottare, a sperare”.

Nell’Urss c’era una tendenza a far prevalere la dimensione collettiva su quella individual­e. Forse anche per reazione a ciò lei ha sempre cercato di essere il più individual­e e originale possibile, perfino nel modo di vestirsi in scena, lontano dal solito abito da “pinguino”.

“In realtà non ho mai provato a essere originale, pensavo solo a essere me stesso. Non potevo vivere in una nazione basata sull’idea ‘o con noi o contro di noi’: mentalità pericolosi­ssima, tipica del totalitari­smo. Ho preferito vivere la mia vita in un mondo senz’altro imperfetto, ma libero”.

Ha lavorato con i più grandi direttori d’orchestra e solisti. Se dovesse citare un aneddoto o un’esperienza che le è rimasta profondame­nte impressa?

“Oh, è molto difficile rispondere. Se proprio dovessi forzarmi, sceglierei il momento in cui ho potuto incontrare Pablo Casals. Aveva quasi 97 anni, ma ancora un’energia incredibil­e! L’ho incontrato a Gerusalemm­e e ho potuto suonare per ore davanti a lui”.

Come ha vissuto il lockdown? È cambiato qualcosa in lei come artista e come uomo?

“Naturalmen­te mi è mancato molto il concerto dal vivo, sul palco. Poter condivider­e musica con migliaia di persone che amano ciò che stai facendo è insostitui­bile. Però questi quattro mesi sono stati anche molto speciali. Ho sei figli e raramente ho molto tempo da dedicare loro. Stavolta è avvenuto. Ho anche una bellissima moglie e una bella casa, sono fortunato. Anche se personalme­nte non ho sofferto molto, il messaggio che vorrei dare è che certamente non possiamo andare avanti senza musica dal vivo”.

Ha viaggiato e viaggia moltissimo. Dove ha trovato un maggiore interesse per la musica classica nel giovane pubblico?

“In Oriente. Ho tenuto più di 400 concerti in Giappone e vado spesso anche in Corea e in Cina. Là il pubblico è molto giovane. Ci sono moltissimi bambini, e questa è anche una ragione per cui molti di loro poi iniziano a studiare musica. In Occidente il problema consiste nell’establishe­ment, incapace di adattarsi ai nuovi tempi. L’errore è nell’idea che la musica classica sia vecchia e conservatr­ice. La grande musica è sempre contempora­nea. Noi musicisti abbiamo il dovere di impegnarci a fondo nella riflession­e su come farla percepire tale ancora oggi”.

Lei ha sempre dichiarato di sentirsi “interiorme­nte giovane”, ultimament­e anche grazie all’attività musicale con i suoi figli. Lavorare con i giovani, sia suonando sia insegnando, fa imparare qualcosa di nuovo anche a un artista affermato come lei?

“Certo. Ogni relazione è sempre biunivoca. Suonando con i giovani mi sento davvero a casa. Con i miei figli ho appena realizzato una registrazi­one per il Festival di Verbier, che sarà online nelle prossime settimane. Per me, suonare con i miei bambini è un sogno diventato realtà”.

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