Il cd allegato
Tartini, il virtuoso sedentario compie 250 anni
Giuseppe Tartini, morto nel 1770 all’età di quasi 78 anni, sfuggì al destino dei virtuosi violinisti da esportazione che l’Italia del Settecento spargeva ai quattro angoli d’Europa. Fra i colleghi di serie A nella sua generazione, il gran viaggiatore Vivaldi morì a Vienna nel 1741, Mascitti a Parigi nel 1760, Geminiani a Dublino nel 1762, Locatelli ad Amsterdam nel 1764, il bizzarro Veracini nel 1768, nella natìa Firenze, sì; ma dopo aver fatto terra bruciata ovunque andasse: a Londra, Düsseldorf, Dresda e Praga il rumore dei suoi scandali superava la voce del suo violino Stainer, il leggendario “Pietro e Paolo” che finì sommerso nella Manica. Invece Tartini, al pari del comune capostipite Corelli, scelse per sé un destino operoso ma sedentario rifiutando i lucrosi ingaggi dei nobili viennesi e britannici. Dopo la parentesi praghese (1723-26), la sua presenza fuori di Padova è attestata solo per brevi tournées a Parma (1728), Bologna (1730), Camerino (1735), Roma (intorno al 1735), Ferrara (1739), e soprattutto in quella Venezia che per lui, nato in Istria da padre di origini fiorentine, restava la “Serenissima Dominante”. Ma il centro della sua attività matura, a 25 miglia dalla capitale lagunare, restò sempre Padova, la città che batteva al ritmo di due cuori: un’antica università aperta alle nuove scienze matematiche e sperimentali, e la basilica di Sant’Antonio, teatro di devozione e di magnifiche liturgie in musica.
Dal 1721 al 1765 Tartini esercitò nella cappella antoniana - forte di 40 elementi
A differenza dei violinisti itineranti, Giuseppe Tartini trascorse la sua vita a Padova fino alla morte avvenuta 250 anni fa. Ma la sua casa fu centro di attrazione per tutta Europa. E dal mondo: qualcuno arrivò pure dall’Isola di Giava “per esser suo Scolare…”
stabili fra cui 24 strumentisti, 4 organi, 8 castrati e altrettanti fra tenori e bassi - il ruolo di “primo violino e capo di concerto”, secondo nella gerarchia solo al maestro di cappella. Comporre e dirigere per le maggiori solennità (una quarantina di funzioni) non comportava un impegno troppo assorbente e gli consentiva di partecipare ad altri eventi esterni con gradito arrotondamento del suo salario annuale, che ascendeva alla discreta somma di 400 ducati. Nelle stagioni morte entrano in pista le accademie. Dal 1728 al 1740, Tartini e il suo primo violoncello Vandini sono chiamati a rallegrare le sedute dell’Accademia dei Ricovrati, ridotto di dame, cavalieri, intellettuali e autorità cittadine. Altri circoli meno formali provvedono ad eseguire musica vocale e strumentale; eventualmente a commissionarne di nuova. Buoni dilettanti come gli “Imperterriti” dell’abate Rota, o circoli più sofisticati in contatto con le correnti europee del gusto. Il sàssone Naumann frequentò Padova dal 1754 al 1768, entrando nelle grazie di Tartini e finendo per comporre un oratorio sul libretto metastasiano della Passione di Cristo; committente il marchese Ximenes, promotore di un’accademia privata cui interveniva l’operista Giovanni Ferrandini reduce dalla corte di Monaco. Nel 1771 Ximenes e soci ordinarono ben tre intonazioni della Betulia liberata: a Callegari, Mozart e Myslivecek. Talvolta è l’intera città a trasformarsi in teatro. Quando Carlo Rezzonico, pastore della Chiesa patavina per 15 anni, ascende al pontificato nel 1758 come Clemente XIII, Padova esplode in una frenesia collettiva di celebrazioni durata settimane. Nobiltà e corporazioni, basiliche, parrocchie e conventi gareggiano ad allestire architetture effimere, luminarie e rinfreschi, spettacoli pirotecnici, Messe solenni con mottetto solistico all’Offertorio e spari di mortaretti all’Elevazione e al Te Deum. E ancora: fanfare e tamburi, “strepitose sinfonie” e “conserti” “di Violino, di Oboè , e Violoncello”, “maestosissima Musica” di trombe marine, fagotti e timpani con orchestre e cori divisi. Una relazione a stampa illustrata con ricche incisioni elenca fra i divi di tale sacra Piedigrotta: i castrati Gaetano Guadagni (contralto) e Ventura Rocchetti (soprano acuto), poi “tutti i Musici, e Professori” della cappella antoniana guidati dal “celebre Padre Maestro Val[l]otti” e dalle loro prime parti: il “famoso Professore Signor Giuseppe Tartini” al violino, il “celebre Professore Signor Matteo Bissoli” all’oboe, “il Signor Don Antonio Vandini celebratissimo Professore” al violoncello.
Se viaggia poco, Tartini riesce a far viaggiare il resto del mondo, guadagnando così, come già Corelli prima di lui, il titolo di “Maestro delle Nazioni”. Dal 1728 e per oltre quattro decenni, la casa in cui abitava con la sola compagnia della moglie Elisabetta Premazore diverrà la mecca dei violinisti giunti da ogni dove a perfezionarsi con lui. Il loro numero è quasi incalcolabile, visto che ne accettava da 4 a 9 per volta; e non erano le frettolose masterclass dei nostri tempi, ma percorsi individualizzati della durata di circa due anni. Per più ore al giorno gli allievi approfondivano la tecnica dell’arco, il fraseggio, l’espressione e il contrappunto; fra loro e il maestro si stabiliva spesso una relazione umana profonda e duratura. Per Maddalena Lombardini, “figlia” del Conservatorio dei Mendicanti e destinataria di una lettera che è un vero e proprio trattato didattico, si adoprò a combinare un matrimonio di convenienza che le permettesse una carriera indipendente di concertista. Con Pietro Nardini, da tutti considerato il suo legittimo successore, il rapporto fu filiale anche a prescindere dal dubbio aneddoto di un loro estremo addio in punto di morte. Attestati di stima e riconoscenza fioriscono nelle biografie di suoi distinti pupilli oltremontani: Pagin, La Houssaye, Campion e Touchemoulin dalla Francia; Scheff e Naumann dalla Germania; Helendaal dai Paesi Bassi.
Sul più esotico di tutti, il dedicatario delle Sonate a violino e basso op. 2, ci è riuscito di trovare notizie inedite incrociando fonti italiane e olandesi. “Guglielmo Fegeri da Giava, Isola dell’Indie Orientali, a bella posta partitosi, non tanto per vedere l’Italia, quanto per essere suo Scolare, come fu, cosa sorprendente, e per la studiosa Gioventù degna di grande emulazione”; così l’elogio funebre del Fanzago, iperbolico come si conviene a questo genere letterario. Il suo vero nome era Willem Feger, nato verso il 1718 da un certo Christoffel, mercante a Batavia (oggi Jakarta) per conto della Voc, la potente Compagnia olandese delle Indie orientali. Compiuti i 20 anni, come d’uso per i rampolli della buona società coloniale, fu
mandato a studiare in Europa. Il 18 settembre 1738 s’immatricolava alla facoltà di medicina dell’Università di Leida. Il 20 settembre 1745 lo troviamo a Padova (sede di una celebre facoltà medica), dove con atto notarile dà procura al mercante Quirijn Swartvelt di vendere a suo conto tre obbligazioni ritirate dalla Weeskamer di Rotterdam, banca di deposito per orfani di confessione cattolica. Sì laureò poi nell’arte salutare? Non lo sappiamo; forse era più interessato al violino, visto che proprio in quel 1745 Tartini gli dedica l’op. 2; e l’onore di una dedica si pagava. Ai primi del 1748, trentenne “molto culto ed erudito”, è a Firenze dove si aggrega all’Accademia degli Apatisti presieduta dall’abate Giovanni Lami, direttore della Biblioteca Riccardiana. Un lungo silenzio, dopodiché il 25 settembre 1767, con la qualifica di mercante al servizio della Voc, s’imbarca ad Amsterdam sulla nave Huis ter Meijen, che dopo 258 giorni di viaggio approda a Batavia. Vi morirà il 21 gennaio 1773 ancora nell’esercizio del mestiere paterno, addolcito (ci piace immaginarlo) dai notturni assoli del suo violino sotto il cielo tropicale di Giava.