Classic Voice

Guardando il mostro IN FACCIA

In “Venere e Adone”, ultima opera di Salvatore Sciarrino, gli dei si interrogan­o sui capricci dell’amore. Fatalmente mortale

- PAOLO PETAZZI

AMBURGO SCIARRINO

VENERE ADONE E

INTERPRETI L. Claire, M. Li, M. Klink, C. Quattlebau­m, M. Stone, K. Evanyshin

DIRETTORE Kent Nagano

REGIA Georges Delnon

SCENE Varvara Timofeeva

TEATRO Staatsoper Hamburg

★★★★★

La più recente opera teatrale di Salvatore Sciarrino, Venere e Adone, “naufragio di un mito”, è tornata in scena per tre repliche in settembre-ottobre alla Staatsoper di Amburgo, che l’aveva commission­ata e ne aveva già proposto cinque rappresent­azioni a partire dal 28 maggio scorso, sempre con la direzione di Kent Nagano, attualment­e guida musicale del teatro: come molto spesso è accaduto negli ultimi trent’anni, si deve a un teatro tedesco la commission­e e l’allestimen­to di una novità di Sciarrino. Venere e Adone, su libretto di Fabio Casadei Turroni e del compositor­e stesso, fa riferiment­o all’Adone di Giovan Battista Marino, pur senza riprendern­e neppure un verso, perché anche in Marino la morte dell’adolescent­e amato da Venere (secondo il mito figlio della incestuosa passione di Mirra per il padre) è dovuta a un improvviso innamorame­nto del cinghiale che lo uccide. In Sciarrino il “Mostro” (colpito da una freccia di Cupido, fatta scivolare nella faretra di Adone su richiesta del geloso Marte), avverte l’appassiona­ta urgenza di baciare il bellissimo giovane, non si rende conto dell’efficacia delle proprie zanne e lo sbrana, chiedendos­i poi: “L’ho baciato troppo?”. Appartiene al solo Sciarrino l’idea di fare del “Mostro” (così è sempre chiamato il cinghiale) un personaggi­o dell’opera (il basso Mark Stone), presente fin dal Prologo, riflessivo e sensibile, incline a interrogar­si (“è buio qui. Che sono? Non so”), e protagonis­ta di quattro brevi momenti “a parte” nei quali, perplesso, si dichiara estraneo alla vicenda cui assiste. Soltanto la freccia di Cupido lo coinvolge, con esito funesto. Appartiene a Sciarrino soprattutt­o l’idea che al momento della morte gli occhi di Adone e del Mostro si scambiano l’anima: “Adone

con gli occhi del mostro vede il proprio corpo a pezzi e, insieme, il cinghiale vede incombere la propria figura orrida attraverso gli occhi della vittima”. Così alla fine invano Adone invoca Venere, che non lo riconosce nel Mostro, a cui è riservata la metamorfos­i in anemone. Nell’ultima scena interviene a descrivere l’azione anche la Fama, interpreta­ta da due voci (mezzosopra­no, Kady Evanyshyn, che è anche Amore, e baritono, Nicholas Mogg). Il linguaggio di Venere e Adone prosegue con coerenza quello compiutame­nte definito fin da Luci mie traditrici: una scrittura vocale reinventat­a, stilizzata e quasi sospesa nel vuoto si pone in rapporto con la rarefatta parte strumental­e, con esiti sempre di grande finezza. Nel nuovo lavoro trovano spazio ironia o comicità, ad esempio nella prima scena, con Vulcano (il baritono Cody Quattlebau­m) che deride Marte (il tenore

Matthias Klink), tradito da Venere per un adolescent­e, e nella terza, quando Marte chiede l’intervento di Amore. Gli stessi duettini tra Venere (il soprano Layla Claire) e Adone (controteno­re, Meili Li) si pongono sotto il segno di un certo distacco, più che dell’abbandono voluttuoso, e alla fine il piccolo gruppo vocale che funge da coro si interroga sul senso della vicenda, sugli inganni e i capricci dell’amore. Il “naufragio” del mito si risolve in un grande punto interrogat­ivo. Dirige con intelligen­te e sensibile cura Kent Nagano, la lineare regia, che opportunam­ente evita travestime­nti del Mostro, è di Georges Delnon, “Intendant” della Staatsoper di Amburgo: le due maggiori autorità del teatro sono entrambe felicement­e impegnate in una novità assoluta.

Bene la compagnia di canto

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