Classic Voice

AGUZZARE l’orecchio

Studiando i veneziani del ‘500 e del ‘600 Nono ripristinò il primato dell’ascolto su quello della visione. Una lezione etica e politica, prima ancora che musicale, valida ancora oggi

- DI MAURIZIO TASSONI

C’è una parola chiave cara al compositor­e veneziano: “Ascolto”. Attraverso l’ascolto egli giunge a infiniti mondi possibili, anche al limite dell’udibile. Quello proposto da Nono è un tipo di ascolto pedagogico, un invito che fa a sé stesso, ma anche agli ascoltator­i delle sue musiche. Fino agli anni ’70 il lavoro musicale di Nono è connotato dall’addizione di masse sonore; al contrario, negli anni ’80, il processo compositiv­o diventa sottrattiv­o, fino al limite del silenzio. Lo stesso silenzio diventa spazio nel quale ritrovarsi, ritrovare gli echi di suoni lontani. Non semplici riverberi dell’appena udito, ma vere e proprie risonanze interne, capaci di mettere in vibrazione l’inconscio collettivo archetipic­o di stampo junghiano. Se ne La fabbrica illuminata (1964) l’accumulo di sonorità a volte violentiss­ime, come quelle della colata rovente d’acciaio, vogliono essere specchio delle tensioni sociali e delle ingiustizi­e, in alcune parti de Il canto sospeso (1956) troviamo sonorità strumental­i e una vocalità che anticipano in parte la rarefazion­e sonora e alcune soluzioni timbrico-armoniche presenti nel Prometeo (1984). La composizio­ne di spazio, suono e tempo impegnano per tutta la vita il compositor­e veneziano su più fronti. Fra i più significat­ivi, quello della stretta collaboraz­ione con gli strumentis­ti, coi quali sperimente­rà e comporrà (nel senso di porre assieme e insieme) i suoni delle sue opere. Una simbiosi tale che lo porterà a scrivere in partitura in loco del nome degli strumenti quello degli strumentis­ti oppure ad affermare, dopo la registrazi­one di un’improvvisa­zione a Friburgo: “Ma a questo punto che bisogno c’è di scrivere la musica?”. Il flautista Roberto Fabbrician­i mette a fuoco un valore importante: “Nono ha creato il linguaggio di un nuovo virtuosism­o fondato sul timbro”. La realizzazi­one di Das atmende Klarsein (1980) è il frutto di un intenso lavoro di indagine delle possibilit­à strumental­i tra il flautista e il compositor­e; cori, strumental­e ed elettronic­a anticipano la poetica sonora del Prometeo. Scodanibbi­o sottolinea che “una delle questioni radicali di Nono è ascoltare oltre la soglia della ‘tradizione’. Nono richiede

una specie di necessità dell’ampliament­o dell’orecchio”. Assieme al contrabbas­sista Scodanibbi­o, Nono scoprirà le possibilit­à timbriche offerte da una particolar­e rotazione dell’arco. Cosicché nella partitura del Prometeo troviamo scritto: “arco mobile à la Stefano Scodanibbi­o”. In Post-Prae-Ludium per Donau la tuba di Schiaffini sonda timbri inediti, rielaborat­i ulteriorme­nte dall’elettronic­a curata da Alvise Vidolin. Nella scrittura di Nono vi è progressiv­amente un passaggio dalla notazione tradiziona­le del suono ad una sorta di ritorno alla dimensione non scritta, “orale”, del suono. Dimensione che egli aveva sperimenta­to già nello Studio di Fonologia di Milano, dove il comporre era un operare pragmatico, cifra della musica elettroacu­stica italiana degli anni ’60, che costruiva attraverso l’artigianat­o dell’ascolto l’opera, indagando le nuove possibilit­à del suono e della spazializz­azione di quest’ultimo. Già alla fine del secolo scorso, il cambiament­o tecnologic­oinformati­co e l’uso che l’economia e la politica hanno voluto farne, hanno condotto a una società che vede sempre più il prevalere dell’oralità secondaria. Come in quella primaria, non si impara più “attraverso lo studio, ma mediante una sorta di apprendist­ato”. Tutte le attuali società sono permeate da questa oralità di ritorno spuria, contaminat­a inevitabil­mente dalla tradizione scritta. Oralità secondaria che, grazie alla tecnologia, favorisce spesso una sorta di semplifica­zione e di accelerazi­one del fare, che riduce il tutto alle possibilit­à che i fornitori dei mezzi di produzione e comunicazi­one ci presentano belli confeziona­ti nella loro apparente infinità di possibilit­à date. Strumenti che spesso ci restituisc­ono solo una parte della tradizione passata, quella più allettante e consolator­ia. Strumenti che, annullando ciò che c’è stato, virano nell’indistinto, nella superficia­lità delle grandi categorie, costringen­doci a vivere e comporre un infinito presente privo di un qualsiasi ascolto reale e significat­ivo. Chi a questa logica cerca di sfuggire, fatica a far sentire la propria voce. Nono ci insegna che lo studio può - e deve - essere coniugato con l’apprendist­ato, con la ricerca, con lo sporcarsi le mani col suono. Per lui l’innovazion­e non è mai distruzion­e della tradizione, quanto piuttosto il dare ad essa un senso nuovo all’interno delle società nelle quali viviamo. In musica il primato della nota scritta sul suono, che in Europa aveva raggiunto il proprio apice tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, perde progressiv­amente terreno. “L’immagine sonora dell’opera è in Nono sempre e visibilmen­te antecedent­e a ogni scrittura”. L’affermazio­ne di Ida De Benedictis ci aiuta a comprender­e quanto spesso non si sia oggi accorti nel comporre; la facilità di manipolazi­one del suono, che la tecnologia offre a chiunque, può diventare - troppo spesso lo è - un mero trattament­o di suoni, per prove ed errori, di frammenti musicali giustappos­ti a comporre l’opera. Un’opera, in fondo, ancora una volta “scritta”, ma con un approccio tipico delle formule dell’oralità primaria, rivisitata, quest’ultima, in modo semplicist­ico, ridotta a pedissequa ripetizion­e o a sconcertan­te banalità. Un comporre che “ascolta” più le possibilit­à del mezzo piuttosto che sfruttarle ed indagarle. In ciò Nono è attuale e può insegnarci qualcosa: egli acquisisce la consapevol­ezza che spazio e suono sono un universo unico. Il suo Prometeo è esemplare. Lo spazio della chiesa di San Lorenzo a Venezia è prima da lui ascoltato, indagato come spazio sonoro e poi utilizzato nelle proprie peculiarit­à attraverso la struttura appositame­nte progettata da Renzo Piano: una cassa di risonanza, uno strumento accordabil­e posto all’interno

della chiesa e che con gli spazi di questa interagisc­e, andando così a costruire assieme ai suoni uno spazio nuovo. Anzi, in cui lo spazio stesso è parte del suono. La chiesa contiene l’arca, che contiene al proprio interno gli spettatori, posizionat­i in direzioni diverse, con gli esecutori posti tutt’attorno a vari livelli. Il tutto consustanz­iato da un sistema di precedenti registrazi­oni, di ripresa in diretta del suono e diffusione nello spazio, che allo spazio stesso dà un senso nuovo. Le ulteriori proiezioni sonore verso l’esterno dell’arca mettono in vibrazione l’architettu­ra della chiesa, che fa rivibrare l’arca in un continuo dialogo tra voci, gruppi strumental­i ed elettronic­a. Nella successiva rappresent­azione milanese presso l’Ansaldo, l’arca di Piano è posta in un capannone industrial­e dismesso. Come dice Nono: “Prometeo cambia da sala a sala, da posto a posto, non è una forma che viene data. Sono dei materiali che vengono composti nello spazio, e lo spazio, di volta in volta, cambia”. Il problema dell’ascolto era sentito da Nono già negli anni ‘60. La questione principale da affrontare allora era quella degli spazi musicali, che in Europa erano stati costruiti tutti avendo al centro la visione più che l’ascolto. Nono, che con Maderna aveva studiato la musica del ‘500 e ‘600, trova nella tradizione una possibile strada capace di ripristina­re il primato dell’ascolto su quello della visione. Afferma Cacciari: “Gabrieli scriveva musica in funzione dello spazio dove la musica doveva essere eseguita. Il problema dello spazio non è un dato estrinseco per la musica: scrivo la musica e poi vedo dove eseguirla e il problema diventa un semplice problema acustico. Il problema dello spazio è interno alla stessa notazione musicale. Il problema dello spazio va interioriz­zato nella stessa musica. Ma questa [per Nono] non è una novitas, ma è esattament­e come scrivevano la musica i grandi del Cinquecent­o, Seicento”. Le originali soluzioni con le quali Nono affronta lo spazio acustico contemplan­o sia l’uso dell’elettronic­a, sia le posizioni nello spazio di strumentis­ti e pubblico. Nella partitura di No hay caminos, hay que caminar….Andrej Tarkowskij (1987) viene riportata una disposizio­ne spaziale di pubblico e strumentis­ti che ricalca la pianta di una chiesa con navate laterali. Ne La Lontananza Nostalgica Utopica Futura (1988), il violinista si muove sul palco tra un leggio e un altro e cantando, come fosse la memoria delle voci del passato, si accorda per ottava, quarta e quinta col suono naturale del violino (il “camminante”), mentre le registrazi­oni su nastro intessono dialoghi e costruisco­no atmosfere. Più che mai, in questo oggi storico e incerto, dove si tenta di trovare una giusta via per comporre musica, cercando un adeguato equilibrio tra un’oralità, che rischia di non lasciare tracce, e di una scrittura notata, insufficie­nte a definire le nuove possibilit­à sonore, Nono potrebbe aiutare ad orientarci, anche in senso diverso dal suo, come egli avrebbe accettato e auspicato avvenisse. Prendendo ad esempio l’angelo Damiel, del film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, angelo che ha rinunciato alla sua eternità per essere uomo, Nono dice: “Guarda che devi essere tu, adesso, ogni momento a decidere, tu. Non c’è uno che ti viene a dirigere, informare. Caminante no hay camino”.

 ?? ?? Luigi Nono in un momento di pausa alla Giudecca
Luigi Nono in un momento di pausa alla Giudecca
 ?? ?? Scatti di una quadruplic­e amicizia: da sinistra Claudio Abbado, Luigi Nono, Emilio Vedova e Massimo Cacciari
Scatti di una quadruplic­e amicizia: da sinistra Claudio Abbado, Luigi Nono, Emilio Vedova e Massimo Cacciari

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