ANCHE I SUONI SONO CONGELATI IN SIBERIA.
“YAMAL” NELLA LINGUA DEI NENET
significa e sembra davvero che, dopo quel paesaggio remoto, piatto, silenzioso, spazzato da venti gelidi, ricoperto da permafrost e arbusti nani, non ci sia più nulla. Ma per i Nenet, o Nenci, “la fine del mondo” è “casa”, perché è la terra che attraversano da millenni, assieme a branchi di anche 5 mila renne, che accudiscono, guidano e domano con maestria e fermezza, ripetendo gesti sicuri, tradizioni, rituali trasmessi alla perfezione: in un ambiente così ostile c’è in gioco la sopravvivenza. Dell’etnia dei Samoiedi, quella dei Nenet è tra le più popolose delle 48 genti indigene in Siberia: conta circa 45.000 persone, delle quali 15.000 nomadi, divise in brigate che trasferiscono le renne da nord a sud e viceversa. Dalle renne ottengono quanto serve per vivere: forza lavoro, pelli, carne, latte, strumenti e monili confezionati con corna e ossa. I Nenet, vivono per la maggior parte dell’anno ricoperti da capo a piedi da plurimi strati di pelliccia, gli unici in grado di riparare da un gelo che supera anche i -40°. Trascorrono l’inverno a sud della penisola e, ad aprile, risalgono la tundra oltre il fiume Ob, dove d’estate l’aria è più fresca e tiene lontani i nugoli di insetti che invadono la torbiera. Prima di avviarsi, si radunano per una grande festa, di culto sciamanico, il Sava Se che, nei centri principali, diventa un vero e proprio festival, in colora- fine del mondo” Rimane il vento e lo seguiamo fino all’estremo Nord, alla penisola di a cavallo del Circolo Polare Artico, dove vive questo nucleo nomade Nenet, che si sposta su piane di torba e di neve, nel canto perpetuo delle raffiche d’aria gelida. Trasloca su slitte di legno stracolme, tra gli scalpitii e i bramiti di migliaia renne. “La tissimi costumi tradizionali con canti, balli e gare. Quindi, si organizzano in carovane di slitte di legno trainate da renne, sulle quali trasportano tutta la loro vita. Abitano nelle chum, grandi tepee per una decina di persone, con una struttura radiale lignea di circa 35 pali di 4 metri, infulcrati sulla sommità, protetta da grandi pelli di renna sovrapposte; il pavimento è di assi, ricoperto da stuoie e tappeti; sono divise in due (maschi e femmine) e, al centro, c’è la stufa. I ruoli sono ben definiti: alle donne, i compiti inerenti alla chum, come la gestione della legna, sciogliere i blocchi di neve e ghiaccio per l’acqua, lavorare la pelle, cucire gli abiti, cucinare, l’accudimento dei bambini. Agli uomini toccano la guida della carovana, la cura delle renne, la costruzione delle slitte, la caccia e la pesca. I fanciulli sono presto autonomi e, dopo i sei anni, per nove mesi all’anno, sono trasferiti nei villaggi stanziali per frequentare la scuola. Anche se per loro la libertà è un valore supremo, non tutti vogliono poi tornare alle condizioni estreme del nomadismo tribale. È una scelta dai risvolti drammatici: assieme al cambiamento climatico e alla colonizzazione dei gasdotti (siamo sopra la maggiore riserva di metano del pianeta), rischia di svuotare le brigate e portare all’estinzione le tradizioni Nenet e il patrimonio di un popolo libero, fiero, di nomadi e di sciamani, che sa vivere il silenzio.