Ritratto di popolo
Le foto di E.S. Curtis dei nativi nel Far West
“LA MIA È LA REGISTRAZIONE DEL LEGAME CHE GLI INDIANI D’AMERICA HANNO CON I FENOMENI DELL’UNIVERSO” Edward S. Curtis
NNEL 1896, QUANDO Edward S. Curtis decise di dedicare la vita a raffigurare le tribù native americane a ovest del Mississippi, le guerre indiane erano finite. I pellirosse, censiti nel 1900 nel numero di 230.000, erano ormai confinati nelle riserve dove godevano di relativa autonomia, oppure vivevano un tormentato processo di assimilazione.
Curtis non mirava tuttavia
a registrare la decadenza di un aggregato di popoli vinti, decimati e in via di scomparsa, piuttosto voleva tradurre in immagini e anche in parole il loro spirito originario, il senso profondo del loro essere Indiani d’America, il rapporto sacrale e immanente con la Natura, la differenza di sentire ancestrale rispetto a una civiltà sviluppista come quella americana. Un’impresa di straordinaria complessità e di eccezionale rilevanza culturale che richiedeva un approccio fotografico sui generis, quasi “immaginando” gli Indiani come erano stati, non com’erano. Scriveva: “Il compito non è stato facile, spesso ha richiesto giorni e settimane di paziente impegno prima che i miei assistenti e io riuscissimo a vincere la loro ritrosia, le superstizioni, l’innata segretezza. (...) Del resto, la realtà delle cose incalza. Il trapasso di ogni vecchio significa lo svanire di qualche tradizione, di qualche conoscenza di riti sacri non posseduti da nessun altro. Le informazioni devono essere raccolte, a beneficio delle generazioni future, rispettando il modo di vivere di una delle grandi razze dell’umanità. E devono essere raccolte subito oppure l’opportunità che oggi ancora c’è, andrà perduta per sempre”. Dal 1907 fino al 1930, tra spedizioni, vicissitudini familiari, fama e oblio, Curtis con The North American Indian ha dato vita a una memorabile comédie humaine di ben 80 nazioni native articolata in 20 volumi (finanziati da J.P. Morgan) e migliaia e migliaia di fotografie rese romanticamente suggestive dal processo di seppiatura. Come osservò il presidente Usa Teddy Roosevelt nel prefare il primo volume della serie: “Curtis è un artista oltre che un collaudato osservatore. Le sue sono immagini, non fotografie. (...) Gli Indiani d’America li mostra mentre cacciano, viaggiano, danzano, in marcia o accampati. Ritrae uomini di medicina e sciamani, capi e guerrieri, giovani e vecchi, la loro vigorosa esistenza esteriore, ma pure la loro ineffabile vita spirituale dai cui recessi gli uomini bianchi sono banditi. Curtis con questo libro rende un grande servizio non solo al nostro popolo, ma a tutti gli studiosi del mondo”.
“VOGLIO FAR VIVERE GLI INDIANI AMERICANI PER SEMPRE. È UN SOGNO COSÌ GRANDE CHE NEMMENO RIESCO A CONCEPIRLO PER INTERO” Edward S. Curtis