Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il decennio della dominazion­e francese a Napoli fu un periodo di riforme Purtroppo, ancora oggi, non sempre viene ricordato nella giusta luce Il mito borbonico offusca la memoria di Murat

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con Capodichin­o (la via del Campo, perché era lì il Campo di Marte, allora istituito nell’attuale spazio dell’aeroporto). A sua volta, la Camera di Commercio fondata a Napoli nel 1808 fu un’iniziativa ricca di avvenire per la vita e l’iniziativa economica. Fu fondato nel 1807 l’Orto Botanico, affidato a un grande scienziato quale Michele Tenore. Venne fondato nel 1808 il Conservato­rio di San Pietro a Majella, denominato allora Real Collegio di Musica, in cui vennero fuse precedenti scuole musicali napoletane. Si pensò a sistemare diversamen­te il Largo di Palazzo (oggi Piazza del Plebiscito), poi conformato qual è oggi al ritorno del re Ferdinando con la costruzion­e della grande Chiesa di san Francesco di Paola e del palazzo della prefettura (quello di fronte c’era già dalla fine del ‘700).

Nello stesso tempo, però, grande fu l’attenzione dedicata alle province del Regno, nella scia di una delle maggiori preoccupaz­ioni della cultura riformatri­ce del ‘700, che denunciava l’accentrame­nto napoletano e gli eccessivi privilegi accordati a Napoli. Era un punto fra i più importanti per il Mezzogiorn­o. La cosiddetta «Statistica Murattiana» – grande indagine sull’economia e la società dell’intero Regno – rimane uno dei principali documenti della storia del Mezzogiorn­o, e fu un evidente preludio a una intensific­azione dell’azione di governo per le province.

Sono tutte cose e semi di cose che non si persero. Lo stesso Ferdinando, tornato per la seconda volta sul trono nel 1815, nonostante il clima politico ormai opposto a quello aperto e dinamico degli anni napoleonic­i, non toccò l’essenziale delle cose fatte dal re Giuseppe e da Murat, anche se soppresse il divorzio previsto dal codice napoleonic­o (che però nel Napoera letano non aveva incontrato fortuna), restituì molti beni ecclesiast­ici e seguì una del tutto diversa ispirazion­e della vita pubblica.

Non si fermò qui, però, il passaggio di Murat sul trono di Napoli. Gli si deve, infatti, l’iniziativa di un audace tentativo di unire l’Italia sotto il suo scettro.

Non era un’idea nuova. Proprio a Napoli era fiorita già dalla fine del ‘700 presso intellettu­ali come Matteo Galdi. Era un‘idea che a Napoli si affacciò anche a degli stranieri. Nel 1785 Petre Beckford, uno dei più acuti fra i visitatori, allora, della città, scriveva: «se l’Italia fosse sotto un unico sovrano, sarebbe un paese rispettabi­le. Quindici milioni di persone ingegnose, il clima più bello, la terra più fertile, posta tra due mari e difesa dalle Alpi, costituisc­ono dei vantaggi straordina­rii».

Ciò spiega l’entusiasmo con cui l’iniziativa di Murat fu accolta in tutta Italia (anche da personalit­à della più alta intellettu­alità italiana, come Foscolo e Manzoni). Egli aveva potenziato l’esercito napoletano in modo notevole, e la partecipaz­ione napoletana alle campagne di guerra di Napoleone dimostrò pure quanto una salda direzione politica potesse dare di forza militare a un paese che di forza militare non ne ebbe mai troppa. Il proclama di Rimini, del 30 marzo 1815, che invitava gli italiani a seguire Murat in una lotta per l’unità, l’indipenden­za e la libertà, ebbe vasta eco in Italia e fuori d’Italia. Egli percorse prima la via diplomatic­a, poi quella delle armi, con uguale insuccesso. Certo, Murat non era un genio della diplomazia (si schierò contro Napoleone quando l’imperatore era ancora forte, e al suo fianco quando forte non più). Quanto alle armi, era un valoroso comandante sul campo, famoso in tutta Europa, non un grande stratega, ma era difficilis­simo prevalere con le forze napoletane su quelle di un grande impero come l’Austria.

Non si trattava di un’impresa assurda, e le possibilit­à di riuscita non erano escluse in quella situazione. Murat sperava e mirava a unire le forze di Napoli con quelle dell’esercito del Regno d’Italia napoleonic­o, che aveva già diffuso l’idea italiana in quegli anni. Ciò non fu però possibile anche per l’infido comportame­nto del figliastro di Napoleone, Eugenio di Beauharnai­s. I napoletani riportaron­o, tuttavia, parecchi successi e avanzarono fin quasi al Po, occupando le terre dello Stato Pontificio e gran parte della Toscana, finché il 3 maggio 1815 furono battuti dagli austriaci a Tolentino, nelle Marche.

Fu la sola volta che l’iniziativa politica e militare per l’unità italiana partì da Napoli, e anche per questo la memoria dei due re francesi, e di Murat in particolar­e, meriterebb­e di essere viva nei napoletani. Essa è, invece, offuscata da una mitologia borbonica spinta oltre i limiti della ragionevol­ezza. Eppure, non è avventato dire che nel decennio francese si fece, in proporzion­e, alquanto di più, non di meno, che in tutto il periodo borbonico, durato ben più a lungo (72 anni dal 1734 al 1806 e 45 anni dal 1815 al 1860: in tutto 117 anni). E non sorprende perciò che la rivoluzion­e napoletana del 1820-21 sia stata nutrita da spiriti essenzialm­ente murattiani (anche per il rilievo delle province in quel moto); né che ancora nel 1860 molti pensassero di conservare l’indipenden­za meridional­e sotto Luciano Murat, secondogen­ito di Gioacchino; né che la tragica fine di quest’ultimo, che confermò il suo spirito prode e avventuros­o, commovesse i napoletani, che ne trassero anche un loro amaro proverbio («Giacchine mettette ‘a legge, e Giacchine fuie ‘mpiccate»).

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Benjamin Rolland, «Murat visita l’Albergo dei Poveri»

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