Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA CRISI E LA DISGREGAZIONE DEL PAESE SI AVVERTONO DI PIÙ NEL MERIDIONE
La domenica di votazione dovrebbe incitare a una pausa di riflessione più meditata sugli elementi di fondo della vicenda politica che stiamo vivendo. A me è accaduto. Mi è accaduto, infatti, di ricordare come più di una volta abbia avuto occasione di notare che nell’ultimo ventennio o trentennio non si è disgregato soltanto il tessuto politico sul quale il regime repubblicano si era retto fino agli anni ‘90, bensì anche il tessuto sociale soggiacente a quel tessuto politico. Ho anche, perciò, notato che per delineare una qualsiasi politica occorreva avere anche qualche idea chiara sugli interessi e le forze sociali che in vista di una tale politica fosse possibile aggregare, senza, però, ricadere in nessun modo nelle rigidezze e nel determinismo dei facili criteri classisti.
La sociologia politica della seconda metà del Novecento non ci dà da questo punto di vista molti soccorsi di idee o di metodo.
Una volta era facile: agrari e contadini; coltivatori diretti e proprietà parassitaria; capitalista e proletario; padronato e classe operaia; borghesia di un certo tipo o di un altro; classi popolari e classi borghesi, e così via in una serie variamente coniugabile.
Quelle tipologie sociali sono state frantumate e riaccorpate, innovate, soppresse o in mille altri modi modificate e superate dagli svolgimenti impetuosi della cosiddetta società post-industriale (qualcuno dice addirittura, e malissimo, post-moderna). La cultura e l’azione politica risentono molto, evidentemente, di questa carenza, ma la scorciatoia mediatica, che consente di disporre di una fonte molto produttiva di protagonismo e di consenso, non ne fa avvertire il peso negativo; anzi, non fa neppure avvertire il problema. Sappiamo bene, certo, che questa stessa scorciatoia mediatica non è soltanto un improvvisato compenso al carente approfondimento sociale dei problemi politici. Si sa che quella scorciatoia ha le sue forti ragioni, legate alle grandi trasformazioni dei nostri tempi. Si può aggiungere che essa è stata e resta pur sempre un salutare rimedio alle politiche ideologiche e alle sempre dannose ideologie classiste. Detto ciò, il problema, tuttavia, rimane; e non si creda che sia senza peso nella vita pubblica.
Ai suoi tempi Luigi Einaudi, in una pagina memorabile, deprecava «la moltitudine odierna delle leggi, il moltiplicarsi quotidiano di migliaia di leggi, decreti, regolamenti, ordini», per cui «la parola legge non ha più alcun senso» e «la legge è diventata un arbitrio», ed «essa non è più una norma generale applicabile in modo duraturo a tutti, ma una regola arbitraria, creata volta per volta a regolare il caso singolo: la legge non è più ordine, certezza di vita, ma disordine, fomento di incertezza».
Einaudi lo diceva in polemica con i
parlamenti ridotti a tavoli di compensazione delle pretese e degli interessi di partiti, gruppi di pressione, capi e sottocapi. Era, quindi, una polemica contro il
parlamentarismo, ossia contro la degenerazione personalistica e corporativistica delle istituzioni parlamentari. Perciò egli aggiungeva pure che «la virtù dei parlamenti non consiste nel legiferare ma nel discutere», e che perciò non la si misura «dal numero delle leggi approvate», bensì dal numero di quelle non approvate perché vanificate dalla discussione parlamentare.
Alla critica di Einaudi noi possiamo oggi riferirci, anche rafforzandola, in riferimento alla cultura e alle idee politiche oggi totalmente insoddisfacenti sul piano del contesto ideale e sociale in cui l’azione politica si muove. Siamo passati senza quasi accorgercene da un eccesso fuorviante e dannosissimo di ideologismo sociale a un vuoto di idee sociali sulle quali fondare la politica. È già manna dal cielo quando si dice, ad esempio, che si vuole operare pro o contro «le partite Iva» o si dà qualche altra specifica di forze e gruppi o parti sociali oggetto o fine dell’azione politica.
Anche per questa ragione mi ha colpito una pagina di Gianni Giannotti sul Mezzogiorno (Sociologia e sviluppo del Mezzogiorno, a cura di Franco Merico e di Luca Carbone, Besa Editrice, Nardò. È una pagina dedicata allo sfruttamento parassitario delle risorse pubbliche, in cui Giannotti discute con libertà di idee e di modi «le opportunità di sfruttamento delle risorse pubbliche a vantaggio di gruppi predatorii» che sono offerte «dal mantenimento del sistema di servizi del welfare». Giannotti si diffonde a questo riguardo sull’importanza di questo campo anche nel reclutamento e nelle fortune di una parte non trascurabile della classe politica; e sull’ampia misura in cui vi sono coinvolte le stesse organizzazioni del non-profit e del volontariato.
L’interesse delle sue osservazioni va, però, oltre questa specifica critica a un settore sociale di rilievo. Sta nel presupposto di queste osservazioni, e cioè che l’arretratezza del Mezzogiorno ha radici lontane, fra le quali vi sono quelle che affondano nel controllo del potere locale e della sua gestione in un quadro sociale in cui le differenze di ceto e di classe sono, perciò, potenziate e rese più insidiose dagli effetti di quel controllo.
Qualcosa, insomma, di più profonda e storica radice di quanto non sembri ai periodici scopritori della questione meridionale, come quelli di recente fortuna, che hanno «scoperto» come il problema del Mezzogiorno sia dovuto alle sue classi dirigenti. Di radici tanto lontane che ne hanno parlato già i nostri riformatori del Settecento e, dopo il 1860, alcuni dei maggiori meridionalisti, da Franchetti e Sonnino a Salvemini.