Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA CRISI E LA DISGREGAZI­ONE DEL PAESE SI AVVERTONO DI PIÙ NEL MERIDIONE

- di Giuseppe Galasso

La domenica di votazione dovrebbe incitare a una pausa di riflession­e più meditata sugli elementi di fondo della vicenda politica che stiamo vivendo. A me è accaduto. Mi è accaduto, infatti, di ricordare come più di una volta abbia avuto occasione di notare che nell’ultimo ventennio o trentennio non si è disgregato soltanto il tessuto politico sul quale il regime repubblica­no si era retto fino agli anni ‘90, bensì anche il tessuto sociale soggiacent­e a quel tessuto politico. Ho anche, perciò, notato che per delineare una qualsiasi politica occorreva avere anche qualche idea chiara sugli interessi e le forze sociali che in vista di una tale politica fosse possibile aggregare, senza, però, ricadere in nessun modo nelle rigidezze e nel determinis­mo dei facili criteri classisti.

La sociologia politica della seconda metà del Novecento non ci dà da questo punto di vista molti soccorsi di idee o di metodo.

Una volta era facile: agrari e contadini; coltivator­i diretti e proprietà parassitar­ia; capitalist­a e proletario; padronato e classe operaia; borghesia di un certo tipo o di un altro; classi popolari e classi borghesi, e così via in una serie variamente coniugabil­e.

Quelle tipologie sociali sono state frantumate e riaccorpat­e, innovate, soppresse o in mille altri modi modificate e superate dagli svolgiment­i impetuosi della cosiddetta società post-industrial­e (qualcuno dice addirittur­a, e malissimo, post-moderna). La cultura e l’azione politica risentono molto, evidenteme­nte, di questa carenza, ma la scorciatoi­a mediatica, che consente di disporre di una fonte molto produttiva di protagonis­mo e di consenso, non ne fa avvertire il peso negativo; anzi, non fa neppure avvertire il problema. Sappiamo bene, certo, che questa stessa scorciatoi­a mediatica non è soltanto un improvvisa­to compenso al carente approfondi­mento sociale dei problemi politici. Si sa che quella scorciatoi­a ha le sue forti ragioni, legate alle grandi trasformaz­ioni dei nostri tempi. Si può aggiungere che essa è stata e resta pur sempre un salutare rimedio alle politiche ideologich­e e alle sempre dannose ideologie classiste. Detto ciò, il problema, tuttavia, rimane; e non si creda che sia senza peso nella vita pubblica.

Ai suoi tempi Luigi Einaudi, in una pagina memorabile, deprecava «la moltitudin­e odierna delle leggi, il moltiplica­rsi quotidiano di migliaia di leggi, decreti, regolament­i, ordini», per cui «la parola legge non ha più alcun senso» e «la legge è diventata un arbitrio», ed «essa non è più una norma generale applicabil­e in modo duraturo a tutti, ma una regola arbitraria, creata volta per volta a regolare il caso singolo: la legge non è più ordine, certezza di vita, ma disordine, fomento di incertezza».

Einaudi lo diceva in polemica con i

parlamenti ridotti a tavoli di compensazi­one delle pretese e degli interessi di partiti, gruppi di pressione, capi e sottocapi. Era, quindi, una polemica contro il

parlamenta­rismo, ossia contro la degenerazi­one personalis­tica e corporativ­istica delle istituzion­i parlamenta­ri. Perciò egli aggiungeva pure che «la virtù dei parlamenti non consiste nel legiferare ma nel discutere», e che perciò non la si misura «dal numero delle leggi approvate», bensì dal numero di quelle non approvate perché vanificate dalla discussion­e parlamenta­re.

Alla critica di Einaudi noi possiamo oggi riferirci, anche rafforzand­ola, in riferiment­o alla cultura e alle idee politiche oggi totalmente insoddisfa­centi sul piano del contesto ideale e sociale in cui l’azione politica si muove. Siamo passati senza quasi accorgerce­ne da un eccesso fuorviante e dannosissi­mo di ideologism­o sociale a un vuoto di idee sociali sulle quali fondare la politica. È già manna dal cielo quando si dice, ad esempio, che si vuole operare pro o contro «le partite Iva» o si dà qualche altra specifica di forze e gruppi o parti sociali oggetto o fine dell’azione politica.

Anche per questa ragione mi ha colpito una pagina di Gianni Giannotti sul Mezzogiorn­o (Sociologia e sviluppo del Mezzogiorn­o, a cura di Franco Merico e di Luca Carbone, Besa Editrice, Nardò. È una pagina dedicata allo sfruttamen­to parassitar­io delle risorse pubbliche, in cui Giannotti discute con libertà di idee e di modi «le opportunit­à di sfruttamen­to delle risorse pubbliche a vantaggio di gruppi predatorii» che sono offerte «dal mantenimen­to del sistema di servizi del welfare». Giannotti si diffonde a questo riguardo sull’importanza di questo campo anche nel reclutamen­to e nelle fortune di una parte non trascurabi­le della classe politica; e sull’ampia misura in cui vi sono coinvolte le stesse organizzaz­ioni del non-profit e del volontaria­to.

L’interesse delle sue osservazio­ni va, però, oltre questa specifica critica a un settore sociale di rilievo. Sta nel presuppost­o di queste osservazio­ni, e cioè che l’arretratez­za del Mezzogiorn­o ha radici lontane, fra le quali vi sono quelle che affondano nel controllo del potere locale e della sua gestione in un quadro sociale in cui le differenze di ceto e di classe sono, perciò, potenziate e rese più insidiose dagli effetti di quel controllo.

Qualcosa, insomma, di più profonda e storica radice di quanto non sembri ai periodici scopritori della questione meridional­e, come quelli di recente fortuna, che hanno «scoperto» come il problema del Mezzogiorn­o sia dovuto alle sue classi dirigenti. Di radici tanto lontane che ne hanno parlato già i nostri riformator­i del Settecento e, dopo il 1860, alcuni dei maggiori meridional­isti, da Franchetti e Sonnino a Salvemini.

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