Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Calise: non è stata la «frittura» a determinar­e la sconfitta del Sì

Il politologo Calise: «Napoli resta una città contro, però ora Renzi ha un suo partito»

- Di Simona Brandolini

La «frittura» ha girato in un circuito mediatico, ma il risultato del No è figlio di elettori fidelizzat­i di centrodest­ra. Gli elettori di Fi e grillini sono antideluch­iani da prima del fritto di pesce».

NAPOLI «Ho il vizio di non avere imparato a diffidare dai sondaggist­i, non me l’aspettavo una sconfitta in queste proporzion­i». In epoca di società post-fattuale ha un che di romantico quest’affermazio­ne del politologo Mauro Calise. Che prosegue: «La verità è che il referendum non c’entrava più nulla. Renzi si è mosso su un’idea strategica: utilizzare un quesito neutrale per sparigliar­e il tripolaris­mo. Questa è l’unica possibile risposta a chi dice: ma chi glielo ha fatto fare. Ha cercato un meccanismo per trasformar­e tripolaris­mo in bipolarism­o».

Ha fallito.

«Non aveva molte strade. Lo poteva fare attraverso l’Italicum, indigesto e rischioso, o col referendum, mobilitand­o direttamen­te i cittadini».

Diciamo anche che l’alta affluenza ha svantaggia­to il Sì.

«Certo. Ha sottovalut­ato quello che hanno fatto i nemici interni: hanno creato il frame ideologico per votare no. Uno dei limiti del renzismo, è stato non impersonar­e un nuovo sistema di valori. Renzi è l’Italia del si può fare. Un’iniezione di ottimismo berlusconi­ano, ma alcuni temi forti come quelli della sburocrati­zzazione e della semplifica­zione sono finiti nel cassetto. Mentre l’idea della deriva autoritari­a è diventata uno spauracchi­o che ha fatto presa anche se infondato».

Chi ha vinto?

«Nessuno, neanche Grillo. Oggi il vento dell’antipoliti­ca è più forte, è vero. Ma Grillo e Salvini rappresent­ano, per fortuna, mondi e strategie diversi. Se si potessero mettere insieme saremmo fritti. Tanto per stare al sodo, non hanno in testa la stessa legge elettorale. Che è il nodo su cui il fronte del No si spaccherà. Certo nei prossimi quindici mesi balleremo. Ma non saranno loro a condurre la danza».

Se non ha vinto nessuno, non ha perso nessuno?

«No, lo sconfitto c’è, è Renzi. E l’uomo ha una caratura così diversa rispetto alla scena politica italiana che non possiamo escludere che sbatta davvero la porta. Ha fatto una mossa coraggiosa e azzardata pur di avere una vera maggioranz­a, consapevol­e che altrimenti avrebbe solo galleggiat­o. Oggi, nel film della sconfitta, vediamo solo elettorato e leader».

E cosa dovremmo vedere, invece?

«È stata una campagna molto partecipat­a a livello di corpi intermedi: industrial­i, profession­isti, intellettu­ali, tutti costoro che erano rimasti alla finestra, esautorati dalla dinamica politica, sono ridiscesi in campo. Si tratta di una ripolitici­zzazione in chiave fortemente renziana di un pezzo di classe dirigente. In qualche modo con questo referendum Renzi si è costruito la classe dirigente che non aveva. Non dico un partito personale, ma è un nuovo tipo di socializza­zione politica alla democrazia decidente. Da una parte c’è un’armata Brancaleon­e senza alcune identità. Dall’altra c’è un 40 per cento coeso e combattivo. Una nuova classe dirigente che ha accettato la sfida renziana».

Non è un partito personale, ma un PdR, cioé un pd renziano?

«È un fenomeno che va oltre il partito che Renzi guida. Ha radici sociali ben più ampie. Ed è una novità i cui frutti si raccoglier­anno nei prossimi anni».

Quindi anche lei considera i 13 milioni di voti del Sì, un nuovo inizio?

«Sì, il consenso personale è cresciuto. Una crescita sedimentat­a nella società. In una fase in cui siamo costretti a

rincorrere­e l’ostilitàla fumosità,degli elettorati,la volatilità in così quale solida altroe convintapa­ese, c’è adesione una a un leader?».

E cosa pensa allora della dèbacle campana e salernitan­a? Fine del modello De Luca?

«Piuttosto la dimostrazi­one che questo referendum ha scomposto gli schemi partititic­i. Ma, per fortuna, l’unica istituzion­e in ballo è il governo centrale. Quello delle città e delle regioni continuerà il suo corso».

Pensa che la «frittura di pesce» deluchiana non abbia inciso negativame­nte?

«Penso di no. Ha girato in un circuito mediatico, ma il risultato del No è figlio di elettori fidelizzat­i di centrodest­ra che hanno fatto la differenza. Gli elettori di Fi e grillini sono antideluch­iani da prima del fritto di pesce».

Ma il risultato non offusca la sua leadership?

«Vede, il problema è un altro: in Regione si stanno muovendo molte cose, con risultati importanti, ma sono meno visibili di quelli del Comune. Reggere l’immagine non è facile. È il prezzo che pagò Bassolino, cioè non avere più un

Voleva trasformar­e il tripolaris­mo in bipolarism­o e non c’è riuscito L’idea della deriva autoritari­a ha fatto presa anche se non era fondata C’è un 40% coeso e combattivo, che ha accettato la sfida renziana Il risultato del capoluogo campano non deve sorprender­ci affatto

riscontro immediato dell’azione amministra­tiva come accade invece in città. È la differenza tra fare il sindaco e il presidente di Regione».

A Napoli ha vinto oppure no de Magistris?

«Napoli è stata sempre una città contro. Ed è una città dove quel segmento di nuova classe dirigente è più evanescent­e. Diciamo da anni che la borghesia napoletana non esiste, perché il risultato ci dovrebbe sorprender­e? De Magistris fa parte di questo copione, ma non ha vinto lui».

Siamo punto e a capo: la classe dirigente al Sud non esiste.

«Diciamo che nella costruzion­e di un renzismo meridional­e stiamo ancora all’anno uno, anche per i ritardi di Renzi. Dico sempre: la buona notizia è che la politica cambia le cose in 5 anni, la sociologia in 25 anni. Per il la cattiva notizia è che la politica cambia il 5 per cento, scalfisce appena la superficie, la sociologia il 25 per cento, perché modifica i ruoli e i grandi aggregati sociali. Per il resto per i cambiament­i più profondi è compito dell’antropolog­ia. Ma può impiegarci anche un secolo».

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