Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Calise: non è stata la «frittura» a determinare la sconfitta del Sì
Il politologo Calise: «Napoli resta una città contro, però ora Renzi ha un suo partito»
La «frittura» ha girato in un circuito mediatico, ma il risultato del No è figlio di elettori fidelizzati di centrodestra. Gli elettori di Fi e grillini sono antideluchiani da prima del fritto di pesce».
NAPOLI «Ho il vizio di non avere imparato a diffidare dai sondaggisti, non me l’aspettavo una sconfitta in queste proporzioni». In epoca di società post-fattuale ha un che di romantico quest’affermazione del politologo Mauro Calise. Che prosegue: «La verità è che il referendum non c’entrava più nulla. Renzi si è mosso su un’idea strategica: utilizzare un quesito neutrale per sparigliare il tripolarismo. Questa è l’unica possibile risposta a chi dice: ma chi glielo ha fatto fare. Ha cercato un meccanismo per trasformare tripolarismo in bipolarismo».
Ha fallito.
«Non aveva molte strade. Lo poteva fare attraverso l’Italicum, indigesto e rischioso, o col referendum, mobilitando direttamente i cittadini».
Diciamo anche che l’alta affluenza ha svantaggiato il Sì.
«Certo. Ha sottovalutato quello che hanno fatto i nemici interni: hanno creato il frame ideologico per votare no. Uno dei limiti del renzismo, è stato non impersonare un nuovo sistema di valori. Renzi è l’Italia del si può fare. Un’iniezione di ottimismo berlusconiano, ma alcuni temi forti come quelli della sburocratizzazione e della semplificazione sono finiti nel cassetto. Mentre l’idea della deriva autoritaria è diventata uno spauracchio che ha fatto presa anche se infondato».
Chi ha vinto?
«Nessuno, neanche Grillo. Oggi il vento dell’antipolitica è più forte, è vero. Ma Grillo e Salvini rappresentano, per fortuna, mondi e strategie diversi. Se si potessero mettere insieme saremmo fritti. Tanto per stare al sodo, non hanno in testa la stessa legge elettorale. Che è il nodo su cui il fronte del No si spaccherà. Certo nei prossimi quindici mesi balleremo. Ma non saranno loro a condurre la danza».
Se non ha vinto nessuno, non ha perso nessuno?
«No, lo sconfitto c’è, è Renzi. E l’uomo ha una caratura così diversa rispetto alla scena politica italiana che non possiamo escludere che sbatta davvero la porta. Ha fatto una mossa coraggiosa e azzardata pur di avere una vera maggioranza, consapevole che altrimenti avrebbe solo galleggiato. Oggi, nel film della sconfitta, vediamo solo elettorato e leader».
E cosa dovremmo vedere, invece?
«È stata una campagna molto partecipata a livello di corpi intermedi: industriali, professionisti, intellettuali, tutti costoro che erano rimasti alla finestra, esautorati dalla dinamica politica, sono ridiscesi in campo. Si tratta di una ripoliticizzazione in chiave fortemente renziana di un pezzo di classe dirigente. In qualche modo con questo referendum Renzi si è costruito la classe dirigente che non aveva. Non dico un partito personale, ma è un nuovo tipo di socializzazione politica alla democrazia decidente. Da una parte c’è un’armata Brancaleone senza alcune identità. Dall’altra c’è un 40 per cento coeso e combattivo. Una nuova classe dirigente che ha accettato la sfida renziana».
Non è un partito personale, ma un PdR, cioé un pd renziano?
«È un fenomeno che va oltre il partito che Renzi guida. Ha radici sociali ben più ampie. Ed è una novità i cui frutti si raccoglieranno nei prossimi anni».
Quindi anche lei considera i 13 milioni di voti del Sì, un nuovo inizio?
«Sì, il consenso personale è cresciuto. Una crescita sedimentata nella società. In una fase in cui siamo costretti a
rincorreree l’ostilitàla fumosità,degli elettorati,la volatilità in così quale solida altroe convintapaese, c’è adesione una a un leader?».
E cosa pensa allora della dèbacle campana e salernitana? Fine del modello De Luca?
«Piuttosto la dimostrazione che questo referendum ha scomposto gli schemi partititici. Ma, per fortuna, l’unica istituzione in ballo è il governo centrale. Quello delle città e delle regioni continuerà il suo corso».
Pensa che la «frittura di pesce» deluchiana non abbia inciso negativamente?
«Penso di no. Ha girato in un circuito mediatico, ma il risultato del No è figlio di elettori fidelizzati di centrodestra che hanno fatto la differenza. Gli elettori di Fi e grillini sono antideluchiani da prima del fritto di pesce».
Ma il risultato non offusca la sua leadership?
«Vede, il problema è un altro: in Regione si stanno muovendo molte cose, con risultati importanti, ma sono meno visibili di quelli del Comune. Reggere l’immagine non è facile. È il prezzo che pagò Bassolino, cioè non avere più un
Voleva trasformare il tripolarismo in bipolarismo e non c’è riuscito L’idea della deriva autoritaria ha fatto presa anche se non era fondata C’è un 40% coeso e combattivo, che ha accettato la sfida renziana Il risultato del capoluogo campano non deve sorprenderci affatto
riscontro immediato dell’azione amministrativa come accade invece in città. È la differenza tra fare il sindaco e il presidente di Regione».
A Napoli ha vinto oppure no de Magistris?
«Napoli è stata sempre una città contro. Ed è una città dove quel segmento di nuova classe dirigente è più evanescente. Diciamo da anni che la borghesia napoletana non esiste, perché il risultato ci dovrebbe sorprendere? De Magistris fa parte di questo copione, ma non ha vinto lui».
Siamo punto e a capo: la classe dirigente al Sud non esiste.
«Diciamo che nella costruzione di un renzismo meridionale stiamo ancora all’anno uno, anche per i ritardi di Renzi. Dico sempre: la buona notizia è che la politica cambia le cose in 5 anni, la sociologia in 25 anni. Per il la cattiva notizia è che la politica cambia il 5 per cento, scalfisce appena la superficie, la sociologia il 25 per cento, perché modifica i ruoli e i grandi aggregati sociali. Per il resto per i cambiamenti più profondi è compito dell’antropologia. Ma può impiegarci anche un secolo».