Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’editoriale Il dolore
Ciò su cui non bisogna stancarsi di dire è segnalare la drammatica condizione socio-politica, economica, culturale di Napoli. Perché questo dire deve servire a svergognare il visionarismo mistificante che sembra diffondersi ipocritamente da quanti ravvisano una ripresa, una «condizione felice» di una città dove il 67% dei cittadini non vota, e non vota proprio in occasione delle elezioni amministrative per il governo della città. Del che dovrebbero preoccuparsi in particolare gli eletti, la cui forza di rappresentatività è inficiata, al di là dei risultati «formali» e «formalistici» della democrazia rappresentativa.
E invece regna proprio il contrario, come dimostra addirittura la falsificazione delle modalità elettorali. Ma già come richiamarsi al governo della città, quando questo appare un ricordo, quando c’è, dell’antico. Eppure, in un momento solenne e difficile della storia del Paese vi fu chi invitò a ragionare della «politica come amministrazione». Ma come si fa a farlo, se la situazione della città è caratterizzata dal «non governo», che è condizione ancor peggiore del «cattivo governo»?
Come si fa a parlare di amministrazione della città, se le sue strade sono dissestate, i suoi edifici pubblici sono degradati e cadenti, i mezzi di trasporto pubblici sono un documento di caos, di irresponsabilità, di disprezzo dei bisogni dei cittadini, il traffico è abbandonato nelle mani di «amministratori» che non sanno regolare i tempi dei semafori, ignorano i flussi di traffico nelle diverse ore della vita lavoratrice e si fanno confluire masse di auto in percorsi inadeguati, caso mai per tener chiusa (pardon «liberata») una strada adiacente, anche in giorni in cui nessuno la percorre, se non i nullafacenti?
E tuttavia questo è ancora il meno, pur se significa la normalità del governo di una città.
Il peggio, il grave, che l’episodio cui ho alluso è rappresentato dalla lacerazione del tessuto connettivo della città. Non mi stanco di ricordare è la diagnosi cui Cuoco affidò il fallimento della Repubblica giacobina del 1799. Cuoco parlò della drammatica convivenza a Napoli di «due popoli» (i lazzari e i signori), divisi da «due secoli di storia e da due gradi di clima».
Che voleva dire? La sconnessione delle parti della città, che dovrebbero fare sistema, per evitare il disordine amministrativo, il diffondersi del malaffare, il degrado della morale privata e dell’etica pubblica.
Ebbene questa è proprio la condizione di oggi, che pare rispondere addirittura a un poco lucido disegno politico, che a Napoli è quanto di peggio, di meno nobile, di più antipolitico possa concepirsi e tentare di fare. Si tratta di un drammatico esempio del collassamento culturale di categorie epistemologiche, di concetti etici, di regole comportamentali, di lettura delle strutturazioni sociali, di dimensioni istituzionali.
Questa situazione è la trasformazione di una fisiologica condizione, che l’umanità ha vissuto migliaia di volte nella sua storia, in patologia quando, come oggi, questo processo è, ed è stato accompagnato da inconsapevolezza e da cinismo. Proprio come a Napoli. La nostra città, è mia convinzione antica, ha spesso anticipato e esasperato il resto del Paese, poche volte in positivo, più volte in negativo.
La situazione di oggi è questa, con l’aggravante che tutto il Paese, come e più di Napoli, vive, e non sa di vivere o fa finto di non saper di vivere una fase di mefitica estenuazione di un regime di caste, preoccupate, come si sa, solo dei propri interessi. Coloro che in ciò sguazzano devono essere più che combattuti, maledetti.
Come si fa a parlare di amministrazione della città, se le sue strade sono dissestate, i suoi edifici degradati La nostra città ha spesso anticipato il resto del Paese, poche volte in positivo, più volte in negativo