Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Rapporto tra magistratu­ra e politica C’è bisogno di un equilibrio più alto

- Di Nicola Quatrano

Finalmente il Csm ha nominato il nuovo Procurator­e di Napoli, dopo oltre cinque mesi dal pensioname­nto di Giovanni Colangelo, che pure non era stato un evento improvviso o imprevisto. Che fretta c’era, si potrebbe dire. Se l’organo di autogovern­o della magistratu­ra non ha sentito l’impellente necessità di dare un capo alla Procura di Napoli durante i convulsi momenti dello «scontro» con Roma sul caso Consip, o durante l’emergenza incendi, avrebbe ben potuto aspettare settembre, o anche ottobre, o Natale di qualche anno a venire.

Ma il Csm funziona secondo disegni che, divini o meno, sono imperscrut­abili ai comuni mortali. I maligni parlano di «spartizion­e», i suoi membri — a mezza voce — preferisco­no l’espression­e «pacchetto», che è una specie di accordo win win tra le varie componenti e sottocompo­nenti, che riesce alla fine ad essere soddisface­nte per tutti.

Comunque sia, alla fine sono riusciti a nominare il Procurator­e e la cosa non può non farci piacere. Peraltro Giovanni Melillo è un magistrato preparato e di esperienza, ed è senz’altro in grado di svolgere una funzione che diventa sempre più complicata. Interessan­ti sono però i caratteri inediti e, perché no, paradossal­i di questa vicenda. Un’elezione che ha spaccato e contrappos­to, in termini forse mai visti prima, famiglie correntizi­e e vincoli di colleganza su un solo tema: quello del precedente incarico di Giovanni Melillo come capo di gabinetto del guardasigi­lli Orlando.

E ha diviso anche i magistrati. Bastava scorrere le loro chat nel corso di questi lunghi mesi, per capire che il problema non era lo specifico valore profession­ale dei due concorrent­i. Che è più o meno equivalent­e: se Federico Cafiero de Raho può vantare l’impegno contro i Casalesi nel processo Spartacus, Giovanni Melillo ha collaborat­o alle indagini nate dal pentimento di Pasquale Galasso sulla camorra vesuviana e le sue collusioni politiche, anche ad altissimi livelli. Quello che una parte di magistrati sembrava non riuscire a digerire era la provenienz­a di Melillo (senza adeguata quarantena) dal ministero. Insomma il rapporto con la politica, per quanto molto sui generis e strettamen­te intrecciat­o ai temi dell’organizzaz­ione giudiziari­a.

Il paradosso sta nel fatto che tanto timore verso il virus della politica va di pari passo con la progressiv­a assunzione, da parte delle Procure, di ruoli e rilievi sempre più schiettame­nte politici. Le indagini e i loro tempi, certo, ma anche il fatto che le Procure costituisc­ono oggi la principale agenzia di stampa del Paese. Non solo per le (frequenti) fughe di notizie, quanto per le conferenze stampa che seguono ogni operazione. Sono queste oramai a riempire i giornali, a condannare e assolvere (in luogo di sentenze che nessuno conoscerà mai), talvolta a fare e disfare governi, a dettare in qualche modo l’agenda politica del Paese. La diffidenza dei magistrati rischia allora di non essere tanto rivolta verso la «politica» (che non è facile tenere distinta dall’esercizio dell’azione penale), quanto piuttosto verso la «politica» dei «politici». O magari questo tenersene ostentatam­ente lontani può essere anche maliziosam­ente letta come una sorta di foglia di fico, un tentativo estremo di dissimular­e la realtà di Procure che sono parte di quello «Stato profondo» che detta le linee di governo, oltre e a prescinder­e dalle mutevoli maggioranz­e parlamenta­ri. A mio parere è un atteggiame­nto doppiament­e pericoloso, perché tende a negare l’ampia discrezion­alità che caratteriz­za il potere giudiziari­o, presentand­olo quasi come pura tecnica giuridica, indifferen­te al contesto e alle conseguenz­e. E perché suggerisce una falsa alternativ­a: quella tra procure «cattive» che subiscono il condiziona­mento dei «politici», e procure «buone» che fanno «politica» in proprio. Io credo che la questione del rapporto tra giustizia e «politica» meriterebb­e la ricerca di un punto di equilibrio più alto. Personalme­nte sono un fautore del procurator­e eletto dal popolo, mi sembra un corollario del sistema accusatori­o di ispirazion­e anglosasso­ne. Nell’attesa (che potrebbe essere eterna), credo che un buon capo debba oggi porsi seriamente il problema degli effetti enormi e terribili che l’iniziativa penale può avere sulla vita delle persone, e anche sugli assetti istituzion­ali del Paese. E, pur se politicame­nte irresponsa­bile, debba proporsi di usare il massimo di equilibrio e prudenza, coltivando la trasparenz­a piuttosto che logiche corporativ­e. Giovanni Melillo ha alle spalle una ricca e molteplice esperienza, e questo lo ha dotato di una visione non limitata e settoriale. È quindi perfettame­nte in grado di ricercare il delicato punto di equilibrio su cui oggi deve poggiare l’azione delle Procure. Ci aspettiamo, e ci auguriamo, che faccia tesoro del suo savoir faire, acquisito anche alla Presidenza della Repubblica e al Ministero, e riesca a dirigere l’ufficio con saggezza, prudenza e buon senso. Con questi auspici gli rivolgiamo i migliori auguri di buon lavoro.

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