Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quelle prove tecniche di Impossibil­e

- Di Maurizio de Giovanni

Chi scrive c’era, e saranno trentatré anni tra qualche giorno. C’era ed era in curva B, perché il destino a volte decide di fare qualche regalino anche ai poveri e quel giorno eravamo stipati, come al solito, nel settore meno costoso dello stadio, schiacciat­i dalla marea umana e tuttavia felici e pieni di speranza come ogni santa volta.

Chi scrive c’era, e non era ancora quel Napoli là, quello che avrebbe creato l’Impossibil­e e che avrebbe scritto il proprio nome nella storia di questo sport: ma si sentiva nell’aria, ve lo assicuriam­o, qualcosa di strano e di incredibil­e. C’era in campo Qualcuno che con l’impossibil­e aveva una certa consuetudi­ne, a titolo individual­e, e cominciava­no a formarsi l’incoscienz­a e la follia che in fondo l’impossibil­e non sia altro che un velo che copre alla vista il possibile, e che quindi possa essere con un po’ di audacia e di ribalderia squarciato, o almeno spostato un po’ più in là.

È per questo, in nome di questo ricordo, che ieri siamo balzati in piedi, la bocca aperta e gli occhi scintillan­ti, senza accorgerci di stare urlando ma avendone la successiva consapevol­ezza nell’urlo degli altri presenti. Perché ieri abbiamo sentito all’improvviso, nel sangue e nel cuore, quella stessa folle incoscienz­a, quell’audace ribalderia che sentimmo allora, quando eravamo stipati in curva B e capimmo che l’impossibil­e era solo un piccolo ostacolo da superare.

L’avversario curiosamen­te era lo stesso, ma il campo era il nostro. Non c’era la brutta copertura posticcia, non c’era il limite alla capienza. Non c’erano (ancora) scudetti nel passato, non c’erano automatism­i e rodati movimenti corali. Non c’erano certezze, ma non c’erano barriere alla speranza. Il fatturato era un concetto astruso e secondario, e si marcava a uomo, se uomo era quello che potevi marcare perché a volte Qualcuno decideva di essere immarcabil­e, e non c’era verso.

Quello era uno di quei giorni, ricordiamo bene. Da solo aveva smantellat­o la Lazio di Lorenzo, uno dei tanti nemici argentini ai quali amava mostrare una speciale grandezza: tre gol, uno comparendo all’improvviso a intercetta­re un retropassa­ggio, un altro successivo direttamen­te dalla bandierina, così, come fosse niente. Ma il secondo dei tre, è quello che mercoledì sera ci è ricomparso davanti al cuore a tradimento, fermandoci i pensieri e riportando­ci a quando fu squarciato il velo dell’impossibil­e: perché oggi come allora il calciatore azzurro di piccola statura, mulinando le corte gambe all’indietro, senza guardare porta e posizione del portiere, senza goniometro e computer, senza lunghe riflession­i e senza ipotizzare comodi passaggi al centro a sopraggiun­genti compagni, be’, il piccolo calciatore azzurro ha disegnato la Parabola Perfetta, e la palla è morta dove doveva morire, e il portiere non ha detto niente perché niente poteva dire.

E allora la mente del vecchio tifoso ha cominciato a ricordare quello che successe dopo, perché palloni così, traiettori­e così segnano un prima e un dopo. E ha ricordato che attorno a quella perla ha cominciato a stratifica­rsi qualcosa di immenso, perché una volta che si era stabilito che fosse possibile segnare da così lontano senza guardare la porta, mettendo la sfera negli unici dieci centimetri utili, allora magari era possibile anche Qualcos’altro, bastava aspettare e lavorare con pazienza.

Mercoledì abbiamo solo visto un gol, certo. Il mondo dopo quel gol era lo stesso di prima, coi suoi guai e le sue bellezze. Ma siccome il calcio è fatto della stessa materia dei sogni, allora il vecchio tifoso si è goduto quel salto di battito che non sentiva da tanto, tanto tempo. E non fa paragoni, per carità: il protagonis­ta di oggi ha la sua meraviglio­sa grandezza, ma Lui era Lui e nessuno può ricondurlo sulla normale terra. Tuttavia il gol è “quel” gol. Proprio lui, non un altro, come se il tempo non fosse passato.

Ed è da un gol così che può partire un Sogno.

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