Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ripubblicata la raccolta di racconti del 1976 Decoro e innocenza di una miseria all’antica
Mimì. Il «nostro» Mimì. Il nostro Mimì vivo di una così fervida vitalità che uno non si capacita sia morto. Ma come è possibile, ci viene da esclamare, come è possibile? Mimì non ci sta più! Dunque, Mimì: Domenico Rea. In «Tentazione», la raccolta di racconti che, pubblicata nel 1976, è stata recentemente rieditata dalla Compagnia dei Trovatori, Domenico Rea lo ritroviamo in ogni componente della sua identità: di scrittore e di uomo. A cominciare dalla straripante pietà. Pietà per il dolore, soprattutto se non confortato, non riscattato, anzi, magari, rinfacciato, rinfacciato quasi fosse un’onta, una colpa che turba il quieto vivere degli altri. Tipo il dolore dei vecchi: i vecchi emarginati dalla quotidianità familiare, i vecchi di fronte al cui accudimento i figli fanno a scaricabarile, perché — inutile negarlo! — un anziano in casa rappresenta un peso e un impiccio, i vecchi soli, così soli che lo squillo del telefono viene accolto con un sussulto di gioia, anche se, a chiamare, è uno sconosciuto che ha sbagliato numero. E il dolore della miseria, la miseria con cui va a braccetto l’umiliazione, l’umiliazione che a volte fa più male delle rinunzie stesse. Perché, lo sappiamo, quella descritta da Rea è una miseria all’antica, una miseria che non si ribella, non avanza rivendicazioni, non medita scippi e rapine, ma si rincantuccia nel suo angolino, come chiedesse scusa di esistere. È la miseria «onirica» di Ciccio Maestà, personaggio degno di Andersen, offeso e schernito perché insiste a nutrire un sogno, e i sogni, anche se modesti, non son fatti per i «pezzenti». È la miseria «compita» del ragioniere che ha il suo decoro di piccolo borghese da difendere, ma, per raggiungere l’ufficio, si fa ogni giorno chilometri a piedi perché per lui pure un biglietto d’autobus è un lusso inaccessibile. È la miseria timida e esitante del lustrascarpe che il proprio quartino di Terzigno se lo «lippa» un sorsetto alla volta, ma, ahimè, senza niente di solido da metter sotto i denti, e allora deglutisce di bramosia nel guardare come il cocchiere ficca in bocca le sue alici fritte, dopo averle, a una a una, estratte dal cartoccio e accuratamente passate nel sale e pepe. Finché — in quanto, certo, è raro, anzi rarissimo, ma ogni tanto accade che nel buio dell’indifferenza brilli un lampo di solidarietà — il cocchiere, sollecitato dall’oste, scatta in piedi, si scusa per aver scordato la buona «creanza», e chiede: «Compare, voleste favorire con me?» L’oste, il cocchiere, il lustrascarpe: personaggi antichi, ora in via di scomparsa, e per questo carezzati con le parole. Perché, ecco, un altro sentimento che scandisce la scrittura di Rea è una sorta di malessere indispettito di fronte al mondo che, cocciuto, si ostina a cambiare, cancellando la realtà di prima», una realtà che non era affatto migliore, perché anche in essa imperavano ingiustizia e violenza, ma, forse, era più autentica, e comunque a lui più congeniale. E quindi il rimpianto. Il rimpianto di quando ancora ci si moveva in calessi e birocci, i supermercati non avevano sbaragliato i negozi rionali, il cibo era nostrano e non esotico e plastificato, e, con la benedizione di Pulcinella, trovava la sua annuale consacrazione nell’ammucchiata di salami e caciocavalli sui banchi del presepe. Il rimpianto dei tempi in cui in campagna la notte era possibile riconoscere da lontano un passo, una voce, un latrato. E siamo così al terzo elemento caratterizzante che con emozione rintracciamo in questi racconti: l’identità campagnola, terricola, dello scrittore.