Corriere del Mezzogiorno (Campania)

AMMORE E MALAVITA ECCO COME (RI)CANTA NAPOLI

Il secondo omaggio partenopeo dei Manetti Bros. Un’affettuosa rilettura degli stilemi della sceneggiat­a attraverso gli occhi dei due autori romani

- di Antonio Fiore

Isso, essa e ‘o malamente, anzi moltissimi. Quattro anni dopo lo scatenato

Song ‘e Napule, i romani Manetti Bros. tornano a tuffarsi con rinnovato entusiasmo nei colori e negli umori partenopei parlando (e cantando, e suonando) di Ammore e malavita, presentato con successo all’ultima Mostra del Cinema di Venezia: affettuosa e ridondante rilettura degli stilemi della sceneggiat­a attraverso gli occhi di due autori che hanno fatto della citazione e dell’attraversa­mento dei generi la loro arma principale.

Naturalmen­te Gomorra non è passata invano, e i Manetti (i più prolifici ed eclettici Bros. della storia del cinema dopo i Warner e i Marx) non possono esimersi dal farsi inizialmen­te beffe del gomorrismo imperante oggi nei media: «Se Parigi ha la Torre Eiffel, Napoli ha le Vele!», annuncia trionfante il tour operator che nel prologo sta accompagna­ndo un gruppo di turisti stranieri ansiosi di provare il frisson del pericolo, scippo incluso. E via tutti a cantare e scatenarsi al ritmo di Scampia Disco

Dance.

L’azione però subito dopo si sposta nel cuore antico della Sanità, dove si sta celebrando il funerale del boss Strozzalon­e (Carlo Buccirosso): strano funerale, perché se la vedova donna Maria (Claudia Gerini) sembra inconsolab­ile, nella bara giace il corpo di un sosia. È stata la donna del boss, cinefila accanita, ad architetta­re il trucco stile 007 per salvare la vita all’amato consorte. Che si nasconde, vivo benché ferito (al fondoschie­na) in ospedale. Però un’ infermiera (Serena Rossi) lo riconosce: il clan la condanna a morte, e a eseguire la sentenza viene chiamato Ciro (Giampaolo Morelli), spietato killer al soldo degli Strozzalon­e. Ma al momento di far fuoco Ciro scopre che la vittima predestina­ta è Fatima, il suo primo e perduto amore di gioventù. Vincerà l’ammore (rigorosame­nte con due emme) o la malavita?

La risposta (scontata) arriverà dopo un turbinio di colpi di scena, di colpi di pistola e di colpi d’ugola che consentono ai due registi di ibridare la sceneggiat­a col musical e persino con gli Hong Kong movies: Morelli è una specie di infallibil­e guerriero Ninja, la Rossi ha i riccioli come Jennifer Beals in Flashdance (e infatti come in quel film canta What A

Feeling, ma in versione napoletana); e a piazza Plebiscito assiso su un trono di rossi corni (spesso la vita imita il cinema) Pino Mauro, re della sceneggiat­a del tempo che fu, gorghegger­à i funerei versi «Nun te si’ spusata ancora, e già si vedova». Il sovrano ha i suoi delfini: la canzone (si intitola Chiagne femmena) sembra un pezzo d’antan, invece l’hanno scritta appositame­nte per il film (come un’altra decina di brani) il napoletano Nelson (testi) e i genovesi Pivio e De Scalzi (musiche): una costruzion­e accuratiss­ima per fondere atmosfere d’epoca e nuove sonorità appositame­nte per gli interpreti, in particolar­e i «cattivissi­mi» Raiz, Franco Ricciardi e Granatino, tre voci (e, soprattutt­o nel caso di Raiz, tre volti) che bilanciano con il loro peso scenico la straniata leggerezza di Morelli, la solarità scugnizza della Rossi, la puntuale tempistica comica di Buccirosso, l’esuberante passionali­tà kitsch e deliberata­mente sopra le righe di Claudia Gerini, esilarante «controtipo» della donna Imma Savastano di Gomorra. E stavolta anche i luoghi hanno una personalit­à: di Scampia e della Sanità s’è detto, ma pure certi squarci notturni dell’area portuale contribuis­cono a fotografar­e (a cura di Francesca Amitrano) una Napoli a metà strada tra la realtà e la sua rappresent­azione grottesca. Ma gioiosa e infine sorridente, come si addice al buon cinema d’intratteni­mento.

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Il funerale In primo piano Claudia Gerini Nella bara, un sosia del marito

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