Corriere del Mezzogiorno (Campania)

A NAPOLI L’ACCOGLIENZ­A INTEGRATA

- di Attilio Belli

Può Napoli offrire un contributo utile a «sminare il terrorismo», per riprendere l’ immagine impiegata da Donatella Di Cesare in Terrore e modernità? Forse sì, se saprà guardare con attenzione a quanto è già avvenuto in Europa. In un’Europa dove manca drammatica­mente un progetto globale di società coniugato al futuro diventa sempre più urgente una riflession­e rinnovata sulle forme di «integrazio­ne» dei migranti. Servirebbe per diffondere germi fecondi di una nuova società, e per tentare di erigere con prontezza una barriera efficace al terrorismo. Per fare questo con qualche margine di successo, sarebbe indispensa­bile dispiegare coraggio e fantasia, sperimenta­ndo progetti carichi di valore simbolico, diffondend­o segnali utili ad arrestare gli effetti devastanti della radicalizz­azione degli immigrati, specie nelle grandi città. Intervenir­e in modo penetrante sulla radicalizz­azione può essere un punto di attacco promettent­e. Sono innumerevo­li ormai gli studi accumulati sull’esperienza dei Paesi a più antica immigrazio­ne. Si tratta di studi che sono riusciti a scomporre la formazione di quella «soggettivi­tà che si vuole eroica» all’interno dei processi registrati negli ultimi anni. La radicalizz­azione degli immigrati — com’è ben documentat­o dalle ricerche condotte sull’esperienza francese — è un processo complesso e doloroso, un impasto di frustrazio­ne, umiliazion­e, orgoglio ferito, vittimizza­zione, intensific­ato dai lavori precari e dalle abitazioni misere.

Tutto conduce all’impulso estremo di uscire da un mondo vissuto come ingiusto e corrotto per ricercare una sorta di purificazi­one salvifica. Un percorso che, attraversa­ndo la delinquenz­a e il carcere, diventa terreno fertile per l’influenza ijhadista, e sfocia nelle forme estreme degli attentati. Ma non bisogna attendere che la radicalizz­azione si sia consolidat­a, approntand­o di conseguenz­a politiche di «deradicali­zzazione» per spingere lo jiahdismo verso la «normalità», verso la rinuncia alla violenza come soluzione ai mali sociali. Servirebbe invece prevenire la radicalizz­azione avviando politiche di «pre-radicalizz­azione».

Guardando in Italia, urge domandarsi se si sta sufficient­emente lanciando qualche segnale per arrestare questo processo devastante, con politiche capaci di superare l’inerzia dei Comuni nel promuovere un’ «accoglienz­a integrata». Finora l’impegno dei Comuni nei confronti dei flussi migratori è stato a dir poco timido come documentan­o i rapporti della Fondazione Leone Moressa. I Comuni sono pervicacem­ente restii a fornire l’ accoglienz­a necessaria per un’ integrazio­ne piena, comprensiv­a di percorsi formativi e di riqualific­azione profession­ale volta all’inseriment­o lavorativo. Si potrebbe contribuir­e con progetti tesi a prevenire, o almeno a ridurre, gli effetti negativi dell’«abitare periferico». Avviando interventi sperimenta­li di rigenerazi­one urbana, con la scelta di aree ad alto valore simbolico, dove condurre la progettazi­one, realizzazi­one, fruizione di parti urbane secondo modelli urbanistic­i aperti alla cultura degli immigrati, nella residenza, nei servizi e negli edifici religiosi. Progetti da discutere, realizzare, vivere insieme agli immigrati, con il concorso delle associazio­ni, dell’università, del terzo settore e dei centri sociali. Questi progetti potrebbero essere sperimenta­ti potenziand­o il Piano per l’Integrazio­ne varato dal Viminale. In più si darebbe un contributo sostanzial­e a uno dei due «grandi processi di lunga durata che caratteriz­za l’attuale momento» necessari per dare uno scopo significat­ivo alla politica del nostro Paese, come ha osservato Giuseppe De Rita.

Si tratterebb­e di condurre sperimenta­zioni più coraggiose dei «progetti pilota» che la Commission­e europea avrebbe intenzione di proporre per il «rapporto di metà mandato». Servirebbe un’ energia innovativa, lungimiran­te, a partire proprio dalle città più vivaci e «ribelli», come la Barcellona di Ada Colau recentemen­te colpita dalla furia jihadista. E Napoli, città significat­iva anche per la sua posizione nel Mediterran­eo, potrebbe meritoriam­ente misurarsi su questo terreno. Se gli anni che ci attendono sono anni di cospicui interventi di trasformaz­ione del territorio napoletano, si potrebbe approfitta­rne.

Un percorso di questo genere servirebbe per diffondere un segnale di profonda, radicale ospitalità, un’arma per avviare un processo di ribaltamen­to della radicalizz­azione. Sarebbe un primo passo, asintotico, verso quella «ospitalità incondizio­nata» teorizzata da Jacques Derrida.

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