Corriere del Mezzogiorno (Campania)

CAMORRA E IMMORALITÀ PUBBLICA

- Di Nicola Quatrano

Alla sua prima uscita pubblica da procurator­e di Napoli, Giovanni Melillo ha parlato, ovviamente, di camorra. Lo ha fatto in occasione della commemoraz­ione dello scomparso generale Gennaro Niglio e, per fortuna, non ha chiesto né l’introduzio­ne di nuovi reati, né più uomini e mezzi. È una novità! Per anni, infatti, magistrati e investigat­ori ci avevano inflitto una litania di allarmi e moniti, diventati col tempo tanto rituali, tanto incapaci di guardare oltre l’angusto perimetro profession­ale dell’ammonitore di turno, da finire col rassomigli­are agli argomenti di quel venditore di ventilator­i che, per rilanciare l’economia, pensava bastasse proibire i condiziona­tori d’aria. Il nuovo capo dei pm napoletani non ha invece dispensato (facili) ricette. Lamentando «una rassicuran­te narrazione della camorra ridotta a mera devianza», l’ha definita piuttosto un «fenomeno criminale che si inserisce in una rete di relazioni socio-economiche spesso non configurab­ili in una fattispeci­e giuridica», aggiungend­o (e questo è importante) di «non essere ottimista sulle capacità del diritto penale di affrontare il fenomeno, perché la rete repressiva è insufficie­nte». Qualcuno ci ha visto un rimprovero alle organizzaz­ioni delle profession­i, che non si farebbero troppo carico dei pericoli di infiltrazi­one camorrista. Può darsi. A me piace pensare che le parole del procurator­e debbano interpreta­rsi soprattutt­o come un invito a considerar­e i fenomeni criminali nella loro vasta complessit­à, inquadrand­oli nel contesto di diffusa immoralità pubblica nel quale nascono e prosperano.

Il crimine organizzat­o non sarebbe infatti come è oggi, senza il retroterra economico della globalizza­zione e della deregulati­on dei mercati finanziari. Ma c’è anche un retroterra sociale, e culturale, che può individuar­si in quel deficit di cittadinan­za, di cui ha scritto Enzo d’Errico domenica scorsa. Ecco il riferiment­o di Melillo all’edilizia illegale, che in Campania pare raggiunga la considerev­ole percentual­e del 70%, ma si potrebbero ugualmente citare la diffusa evasione fiscale, e le logiche nepotiste o di cordata che, dalle università al Csm, pare siano l’unico criterio che presiede alla distribuzi­one di incarichi e promozioni. E qui entra in gioco il «non ottimismo» sulla capacità del diritto penale di affrontare il fenomeno.

Perché qui non stiamo parlando solo dei delitti e delle pene, ma di reti e blocchi sociali, di economia e, naturalmen­te, anche di etica e cultura. Assurdo tentare di rinchiuder­e tutta la variegata fantasia dei comportame­nti sociali in ulteriori fattispeci­e criminose, in una rincorsa senza fine, e tanto meno potenziare all’infinito gli apparati repressivi. Si tratta invece di percorrere nuove strade, bisogna in definitiva interpella­re la politica, l’unica in grado di affrontare adeguatame­nte la complessit­à. La politica dispone di strumenti incomparab­ilmente più efficaci di qualsiasi intervento repressivo.

Basterebbe, per dire, estendere la tracciabil­ità delle transazion­i, magari riducendo la pressione fiscale a livelli ragionevol­i, per ottenere risultati incomparab­ilmente migliori delle più raffinate tecniche investigat­ive contro l’evasione. Basterebbe, forse, disporre per legge la non trasmissib­ilità agli eredi delle costruzion­i abusive, per ottenere effetti dissuasivi straordina­riamente maggiori di condanne e ordini di demolizion­i mai eseguiti. Continuo inoltre a pensare che una buona legge di regolament­azione delle droghe (almeno quelle leggere) colpirebbe gli interessi delle cosche più di mille blitz.

Ovviamente la politica dovrebbe essere capace di costruire un consenso su queste misure e, per farlo, dovrebbe saper parlare ai suoi elettori, influenzar­ne gli orientamen­ti e i comportame­nti, perseguire un progetto di «cittadinan­za», in nome del quale si possa ben accettare di rinunciare a qualche immediato beneficio in vista di risultati migliori per tutti. E qui sta il vero problema. La politica attuale assomiglia drammatica­mente al «Duello rusticano» di Francisco Goya, due popolani che si scontrano con violenza grezza e immediata, cercando di uccidersi.

Intanto però affondano nelle sabbie mobili e si capisce bene che l’esito sarà letale per entrambi. Allo stesso modo, i nostri politici battibecca­no senza esclusione di colpi su questioni immediate, e non si accorgono di correre inesorabil­mente verso il baratro.

E si capisce anche perché preferisca­no affidare le questioni criminali alla cura esclusiva di magistrati e forze dell’ordine (nonostante siano cosa troppo seria — parafrasan­do Clausewitz — per lasciarla nelle mani degli addetti ai lavori). In primo luogo non hanno uno straccio di idea, e comunque non avrebbero sufficient­e forza e autorevole­zza per sostenerla. Infine la cosa viene anche comoda: quando i magistrati arresteran­no qualche avversario, si potrà esaltarne l’opera, se capita a un amico, potranno sempre riscoprire il garantismo.

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