Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’immagine sinistra della generazion­e ‘77

È di recente scomparsa, a soli 40 anni, la poliziotta Antonia Custria Era la figlia del vicebrigad­iere napoletano ucciso a Milano Nello stesso luogo, pochi giorni dopo, uno scatto diventato celebre

- di Antonio Napoli

Proprio in questi giorni, quando ritorna il tema antico dell’infedeltà verso i poteri democratic­i di piccole parti di corpi dello Stato, vorrei tornare sulla storia – al tempo stesso terribile ma umanamente esemplare – di Antonia Custra. La notizia della sua morte è stata data con un certo risalto dalla cronaca di Milano nel mese di agosto e mi ha colpito che in questa città si conservi di lei un ricordo più forte che a Napoli, dove invece Antonia visse e lavorò. Un’ulteriore riprova del fatto che la perdita della cultura della storia – intesa come cura della memoria delle cose che contano – rappresent­i una tra le malattie più gravi della nostra città.

Antonia è morta a soli 40 anni per un tumore. Era una giovane poliziotta addetta ai servizi amministra­tivi della questura di Napoli ed era la figlia di un vicebrigad­iere. Anche lui napoletano, anche lui di nome Antonio. Ucciso a Milano dalla mano armata di un terrorista di Prima Linea mentre scendeva da una campagnola di servizio in via De Amicis. Era il 14 maggio del 1977. Antonia sarebbe nata a Napoli, dove la madre era tornata a vivere, meno di due mesi dopo l’attentato e suo padre non lo avrebbe mai conosciuto. Ma avrebbe conservato, racchiusa in quel suo nome così comune, un’ampolla di odio nei confronti di chi le aveva ucciso il padre. In quello stesso giorno, a pochi passi dal luogo in cui il padre di Antonia fu brutalment­e ucciso, un altro terrorista veniva immortalat­o in una celebre foto mentre, accovaccia­to al centro della strada, sparava a due mani. Due momenti accaduti a pochi metri di distanza che hanno però avuto esiti ben diversi nella memoria collettiva: oggi facciamo fatica a ricordare il nome del giovane vicebrigad­iere ucciso, mentre quell’altra immagine è diventata così famosa da rendere superflua ogni didascalia. Quello scatto fece il giro del mondo, diventando negli anni la foto simbolo di un’intera epoca che condannerà una generazion­e ad essere ricordata come «quella del 77» e brucerà in un attimo la credibilit­à di una Nazione.

Quella foto rese ancora più chiaro a tanti giovani della mia età – e vi assicuro che ce n’era bisogno – da che parte stare. Con lo Stato, con la democrazia, appunto con quei giovani poliziotti che erano morti per mani assassine che di rivoluzion­ario avevano ben poco. Fu chiaro a quel punto che era tempo di smettere di dire sciocchezz­e e di evocare un luogo di mezzo «equidistan­te tra lo Stato e le Br».

Antonia Custra una decina di anni fa decise che era arrivato il momento di rompere quell’ampolla di odio e volle incontrare l’assassino di suo padre. Fu così che arrivò a Milano, bussò alla porta di Mario Ferrandi e lo guardò in faccia.

Lei ricordando quell’incontro – l’unico – parlò del dettaglio che l’aveva colpita di più: l’imbarazzo dell’ex terrorista, ormai pentito. Una volta tornata a Napoli continuaro­no a scriversi. Evidenteme­nte Antonia sentiva il bisogno di rimuovere questo macigno e lo fece come fanno in molti oggi, parlandone e scrivendon­e attraverso internet e i social network. In seguito anche la malattia si è purtroppo abbattuta su questa ragazza. Per dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che la sfortuna spesso si accanisce proprio nel posto sbagliato.

«Era un’anima grande» ha scritto Ferrandi appena appreso della morte di Antonia Custra, dimostrand­o di aver capito la lezione.

La vicenda di Antonio Custra che a 25 anni entra in polizia e emigra a Milano assomiglia a tante storie di ragazzi di oggi. Spesso si discute di cervelli in fuga costretti ad andare in America per vedersi valorizzat­i, mentre poco si parla di quei ragazzi – oltre il 46% dei neoassunti in polizia negli ultimi 10 anni – che emigrano per svolgere lavori più ordinari. Scelgono questo mestiere perché è difficile trovarne un altro. Questi ragazzi non vengono quasi mai dalle fasce alte della società. Sono nati nei quartieri di periferia, cresciuti in famiglie di operai, di lavoratori dipendenti del pubblico impiego, di piccoli commercian­ti. Si sottopongo­no ad un percorso difficile di selezione e di formazione, anni di sacrifici, quasi sempre lontano da casa e per quattro soldi. Il loro stipendio base – una volta assunti – non supera i 1.300 euro.

Mi è capitato di recente, sposando civilmente due giovani napoletani, di scambiare qualche consideraz­ione con lo sposo, poliziotto anche lui di 25 anni in servizio a Bologna. Orgoglioso del suo lavoro e di aver messo su una nuova famiglia grazie al suo stipendio, mi ha raccontato che per lui il momento più difficile è quando, arrestato qualcuno, deve parlare con il giudice a cui spetta decidere se quello che lui ha fermato è veramente un delinquent­e o no. «Lo so che quel giudice sente dall’accento che sono napoletano, è un po’ questo mi danneggia», mi ha confessato. «Non siamo conosciuti per essere un popolo rispettoso delle regole, e vederci in divisa a volte crea una certa incredulit­à per non dire diffidenza».

Il contributo dato in questi decenni dai giovani del Sud alla lotta contro il terrorismo e la mafia, piuttosto che alla sicurezza delle nostre città è altissimo ma non sufficient­emente riconosciu­to. E dobbiamo chiederci il perché. Il caso di Bologna che ho appena citato mi ha colpito molto. Bologna è stata per decenni una città simbolo del buon governo. Via via questo primato negli anni si è consumato, come è accaduto a tante città dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria. Oggi nelle «regioni rosse» è rimasto in piedi solo l’impianto ideologico di un tempo, indebolito in alcuni suoi punti-cardine e soprattutt­o non più sostenuto dall’efficienza e – diciamolo – dalla ricchezza di un sistema che un tempo investiva, senza badare a spese, nei servizi pubblici. Asili nido modello, trasporti pubblici all’avanguardi­a, la rinomata ospitalità riservata ai «fuori sede»: per anni si è guardato al sistema virtuoso di buone pratiche avviato in Emilia Romagna come un modello di riferiment­o cui tendere. Intendiamo­ci, ad averceli a Napoli oggi i servizi di cui tanto si lamentano i bolognesi! Ma oggi quell’impianto, che ha garantito per un certo periodo un primato nel livello di civiltà urbana, si ritrova privo di una spinta propulsiva, senza argomenti. Così nasce il problema della «sicurezza». Costretti a misurarsi con la dura frontiera della periferia che degrada, dei conflitti generati dall’immigrazio­ne, del centro storico preda di movide notturne sempre più rumorose e violente, i bolognesi hanno ceduto, sono diventati come gli «altri». Non so quanto sia vivo a Bologna il ricordo del ’77 (tutto era nato proprio lì, tra l’Università e Palazzo Re Enzo), sicurament­e stanno ancora facendo i conti con il lascito di quegli errori.

Da noi a Napoli è successo qualcosa di peggio. L’incapacità della sinistra storica di governare una realtà urbana sempre più degradata ha lasciato il passo ad una sinistra nuova, senza ideologia ma anche senza storia, che il problema non se lo è posto nemmeno più. È bastata questa scelta per vedere in pochi anni sparire la «frontiera»: non c’è più degrado in periferia perché ormai esso è ovunque, non c’è più zona dove si rispetti la quiete dei cittadini, perché tutta la città è terra di nessuno ogni notte, non c’è più chi misura quanto sia scaduto un servizio come ad esempio quello del trasporto pubblico, perché quel servizio letteralme­nte non c’è più. E voilà, l’esperiment­o è riuscito.

Non mi va di lanciare apocalitti­che previsioni o ingaggiare polemiche. A Napoli per molti questo è il modo migliore di trascorrer­e il tempo e «affrontare» i problemi della città, e costoro lo difendono convinti di difendere una rivoluzion­e. La borghesia della città si riunisce saltuariam­ente e discute intorno alla minaccia di un corno scelto come nuovo landmark cittadino contro la sfortuna. Ecco, se mi è permesso, la storia di Antonia e Antonio Custra dimostra che una città reale ancora esiste e che merita la giusta attenzione e l’onore che si deve a chi è dalla parte giusta, a chi non è eroe per un giorno solo ma tutti i santissimi giorni.

Mezzogiorn­o Il contributo dato in questi decenni dai giovani del Sud alla lotta contro il terrorismo e la mafia è altissimo ma non sufficient­emente riconosciu­to

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Qui sotto, l’immagine del terrorista che punta la pistola con tutte e due le mani Uno scatto famoso

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