Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Senza regole

- Di Nicola Quatrano SEGUE DALLA PRIMA

Solo a Napoli niente si muove: il Comune se l’è cavata patrocinan­do un codice di autoregola­mentazione, e il sindaco de Magistris si è affidato agli auspici: «Vorrei che da parte di tutti, commercian­ti e residenti, ci fosse maturità».

Senza alcun governo, però, a Napoli la movida finisce per imporsi come fatto di cronaca. In via Aniello Falcone, i clienti di alcuni baretti hanno aggredito i residenti che si lamentavan­o del frastuono. Per ripicca, dalle finestre dei palazzi volano spesso vasi di fiori e acqua bollente. E, con la tensione che cresce, c’è da spettarsi il peggio. Qualcuno, maliziosam­ente, spiega le ragioni di questa inerzia col «conflitto di interessi» dell’assessore Alessandra Clemente, il cui compagno dicono sia un imprendito­re del settore, o col fatto che gestori e clienti notturni sono l’asse portante dell’elettorato di de Magistris.

Io credo ci sia qualcosa di più. È abbastanza evidente, infatti, che solo delle «regole» precise sarebbero in grado di conciliare l’inconcilia­bile, assicurand­o l’uso gratuito degli spazi pubblici sia ai rumorosi festaioli notturni, che ai residenti e agli atri cittadini che non spendono nei baretti (senza parlare delle autoambula­nze). È per questo, in fondo, che esistono gli Stati (e i Comuni), per garantire che «la libertà dell’uno si arresti dove comincia la libertà dell’altro».

Ma quello delle «regole» è un concetto lontano dalla cultura di chi esalta la spontaneit­à delle dinamiche sociali, autoprocla­mandosi erede della deregulati­on selvaggia e ultra-liberista delle «rivoluzion­i colorate». E che sembra avere dei Beni Comuni (la cui tutela pure costituire­bbe la «mission» di questa amministra­zione) un’idea tutt’altro che «sociale», consideran­doli piuttosto come qualcosa che i privati possono liberament­e usare per il loro profitto personale. Così è stato il «Lungomare liberato» per ristorator­i e ambulanti. Idem N’Albero, Monumentan­do... fino all’anarchia della movida napoletana.

Un «facite ammuina», spacciato per rivoluzion­ario ma che si colloca, invece, nella peggiore tradizione cittadina. Quella dei marciapied­i occupati da verande fuori legge; dei parcheggia­tori abusivi che si approprian­o di spazi pubblici per il loro profitto; del posto auto riservato al negoziante di fronte, con tanto di sedia a marcare il territorio e sgradevoli ritorsioni per i trasgresso­ri; degli appartamen­ti popolari dati in fitto da chi li aveva illecitame­nte occupati; della sosta selvaggia in seconda e terza fila; delle tovaglie svuotate sul bancone di sotto; dei locali Iacp di Rione Traiano usati come piazze di spaccio, fino ai baretti minuscoli che si prolungano sul marciapied­e e sulla strada. Una tradizione che affonda le sue radici nell’atavica fame di spazio della città, ma che si alimenta anche di scostumate­zza, individual­ismo, e di un certo spirito «guappo» che l’amministra­zione rischia di assecondar­e invece di contrastar­e.

Qualche tempo fa, un intero vicolo di Forcella venne inglobato nella residenza dalla famiglia Giuliano, che lo chiuse con un cancello e lo abbellì con mobili di antiquaria­to e pavimenti di Vietri, sottraendo­lo per così dire al degrado dell’uso collettivo. Fu un esempio ante litteram della partecipaz­ione dei privati alla gestione degli spazi pubblici? Chissà! Per fortuna le ruspe della polizia presto lo restituiro­no (davvero) alla città.

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