Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Senza regole
Solo a Napoli niente si muove: il Comune se l’è cavata patrocinando un codice di autoregolamentazione, e il sindaco de Magistris si è affidato agli auspici: «Vorrei che da parte di tutti, commercianti e residenti, ci fosse maturità».
Senza alcun governo, però, a Napoli la movida finisce per imporsi come fatto di cronaca. In via Aniello Falcone, i clienti di alcuni baretti hanno aggredito i residenti che si lamentavano del frastuono. Per ripicca, dalle finestre dei palazzi volano spesso vasi di fiori e acqua bollente. E, con la tensione che cresce, c’è da spettarsi il peggio. Qualcuno, maliziosamente, spiega le ragioni di questa inerzia col «conflitto di interessi» dell’assessore Alessandra Clemente, il cui compagno dicono sia un imprenditore del settore, o col fatto che gestori e clienti notturni sono l’asse portante dell’elettorato di de Magistris.
Io credo ci sia qualcosa di più. È abbastanza evidente, infatti, che solo delle «regole» precise sarebbero in grado di conciliare l’inconciliabile, assicurando l’uso gratuito degli spazi pubblici sia ai rumorosi festaioli notturni, che ai residenti e agli atri cittadini che non spendono nei baretti (senza parlare delle autoambulanze). È per questo, in fondo, che esistono gli Stati (e i Comuni), per garantire che «la libertà dell’uno si arresti dove comincia la libertà dell’altro».
Ma quello delle «regole» è un concetto lontano dalla cultura di chi esalta la spontaneità delle dinamiche sociali, autoproclamandosi erede della deregulation selvaggia e ultra-liberista delle «rivoluzioni colorate». E che sembra avere dei Beni Comuni (la cui tutela pure costituirebbe la «mission» di questa amministrazione) un’idea tutt’altro che «sociale», considerandoli piuttosto come qualcosa che i privati possono liberamente usare per il loro profitto personale. Così è stato il «Lungomare liberato» per ristoratori e ambulanti. Idem N’Albero, Monumentando... fino all’anarchia della movida napoletana.
Un «facite ammuina», spacciato per rivoluzionario ma che si colloca, invece, nella peggiore tradizione cittadina. Quella dei marciapiedi occupati da verande fuori legge; dei parcheggiatori abusivi che si appropriano di spazi pubblici per il loro profitto; del posto auto riservato al negoziante di fronte, con tanto di sedia a marcare il territorio e sgradevoli ritorsioni per i trasgressori; degli appartamenti popolari dati in fitto da chi li aveva illecitamente occupati; della sosta selvaggia in seconda e terza fila; delle tovaglie svuotate sul bancone di sotto; dei locali Iacp di Rione Traiano usati come piazze di spaccio, fino ai baretti minuscoli che si prolungano sul marciapiede e sulla strada. Una tradizione che affonda le sue radici nell’atavica fame di spazio della città, ma che si alimenta anche di scostumatezza, individualismo, e di un certo spirito «guappo» che l’amministrazione rischia di assecondare invece di contrastare.
Qualche tempo fa, un intero vicolo di Forcella venne inglobato nella residenza dalla famiglia Giuliano, che lo chiuse con un cancello e lo abbellì con mobili di antiquariato e pavimenti di Vietri, sottraendolo per così dire al degrado dell’uso collettivo. Fu un esempio ante litteram della partecipazione dei privati alla gestione degli spazi pubblici? Chissà! Per fortuna le ruspe della polizia presto lo restituirono (davvero) alla città.