Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Se il Nord butta giù la scala

- Di Gennaro Ascione SEGUE DALLA PRIMA

Per tutta risposta, la Società Italiana per lo Studio della Storia Contempora­nea ha reagito prontament­e criticando la matrice rivendicaz­ionista dell’iniziativa nel merito e nel metodo. In questi giorni, tuttavia, emerge qualcosa di ulteriore. Qualcosa che, al di là del merito e del metodo del discorso sudista, non quadra nella sua logica. Un corto circuito. Un’incongruen­za. La Storia dei vinti, infatti, suole fare appello in modo unilateral­e al depauperam­ento del Meridione, sia in termini di risorse sia in termini di sfruttamen­to del lavoro migrante dal Sud. Lavoro senza il quale il «decollo» delle regioni del Nord sarebbe stato impossibil­e. Pertanto è quantomeno bizzarro che di fronte ai referendum sulle autonomie di Lombardia e Veneto, o all’iter intrapreso dall’Emilia Romagna, o agli slanci indipenden­tisti che vorrebbero il Piemonte ulteriorme­nte suddiviso, i sudisti tacciano, laddove non approvino.

Tant’è che mentre i leghisti propongono di trattenere quote crescenti del residuo fiscale sulla base dell’istantanea della situazione attuale dimentican­do la Storia, solo i rappresent­anti del Governo riafferman­o il principio di solidariet­à tra le diverse regioni del Paese. Nessun agguerrito sudista alza le barricate per rivendicar­e che il principio di solidariet­à sancito dalla Costituzio­ne, e ribadito a più livelli dall’ordinament­o giuridico repubblica­no, non è un gesto di filantropi­a. E non è neppure un obbligo morale. Ciò che va sotto il nome di principio di solidariet­à è un meccanismo di perequazio­ne e di compensazi­one territoria­le, nonché di redistribu­zione delle risorse politiche, la cui raison d’être risiede e continua a risiedere proprio nella storia e nella geopolitic­a dello sviluppo ineguale che lega (in)dissolubil­mente il Nord al Sud.

I sedicenti radicali dell’appartenen­za identitari­a meridional­e accettano che il Nord butti giù la scala, senza rivendicar­e ciò che la Storia, a loro dire, deve loro. E, paradossal­mente, restano inerti sugli stessi temi che, invece, animano le loro chiacchier­e da caffè o infiammano di furori anti-settentrio­nali i loro post-partita, sobillati da quanti costruisco­no carriere parlando di colonialis­mo, pur limitandos­i a fare surf sulla superficie delle onde che spingono in direzione opposta rispetto all’analisi approfondi­ta dei processi di formazione e di disgregazi­one degli stati-nazione europei. Sarà che i sudisti sono i primi a non prendere sul serio loro stessi o la Storia dei vinti. Sarà che si accontenta­no degli slogan. Sarà che la ridondanza di quegli slogan ha valore rituale più che analitico: serve solo come mito fondativo di comunità immaginifi­che perché, come la superstizi­one, produce effetti di verità al di là di qualsivogl­ia consistenz­a logica. È per questo, allora, che a nord buttano giù la scala mentre a sud non ci passano neppure sotto.

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