Corriere del Mezzogiorno (Campania)
CHIARA MUTI «IO E MIO PADRE AL SAN CARLO: UN SOGNO»
Presentata con un anno di anticipo la prima coproduzione tra il Massimo e la Wiener Staatsoper Il maestro sul podio, la figlia alla regia: «È il trionfo degli elementi e della psicologia»
Napoli 1770: un padre e un figlio molto speciale — Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart — fanno un viaggio in città e vi restano per quaranta giorni. Napoli 2018, un padre e una figlia molto speciali tornano a Napoli per dirigere — l’uno sul podio, l’altra alla regia — la più partenopea delle opere di quell’enfant prodige. Se a questo si aggiunge che
Così fan tutte, presentato ieri con ben un anno d’anticipo (aprirà la stagione sancarliana 2018-2019), essendo la prima coproduzione tra il Massimo napoletano e Wiener Staatsoper, unisce le due grandi capitali europee della musica del Settecento, e che Riccardo Muti dal 1983 non dirige opere al San Carlo, si deduce che sì, questa volta è proprio il caso di parlare di «evento», parola altrimenti abusata. Lo hanno sottolineato in varie declinazioni tutti, dai sovrintendenti Rosanna Purchia e Dominique Meyer della Staatsoper al direttore artistico Paolo Pinamonti, alla scenografa Leila Fteita.
E per Chiara Muti pare sia anche di più. Vero?
«È un po’ l’opera della vita. Ci sono così dentro che il mio sforzo è tutto a togliere, fare
tabula rasa e ripartire. Con mio padre l’ho imparata a memoria già nell’infanzia (ne canticchia infatti qualche passaggio e incanta ndr) e ora tornare a Napoli dopo Le nozze di
Figaro dell’anno scorso, per giunta con lui alla direzione dell’orchestra, è più di un onore: è un sogno che si realizza».
Domanda d’obbligo: com’è lavorare con un padre che si chiama Riccardo Muti?
«L’abbiamo già fatto in Sancta Susanna e Manon Lescaut. Ho rotto il giaccio allora, il pubblico e la critica mi hanno testimoniato il loro apprezzamento e adesso mi sento libera di vivere un’intimità artistica profonda che per entrambi diventa una sorta di necessità espressiva. Così fan tutte non solo è la terza opera, ma il primo Mozart che realizziamo insieme e a Napoli per giunta: questo fa la differenza». Qual è la differenza? «È una questione autobiografica, di origini, di sangue perché, come mi ripete spesso mio padre, anche se non sei nata a Napoli tu ce l’hai nelle vene. Ed è così: quando ho diretto Le Nozze di Figaro, lui era tra il pubblico. Poi siamo andati a Pompei e a Capodimonte. Napoli è mia nonna che fece un lungo viaggio in treno dalla Puglia e arrivò con le doglie per partorire qui perché, spiegava, “se in tutto il mondo ti chiedono dove sei nato e rispondi che sei napoletano, la gente ti rispetta”. Napoli è la luce che è rimasta nella retina del giovane Mozart che fece di tutto per avere una commissione dal San Carlo e proprio quando ci stava riuscendo, una sera a casa di Jommelli, il progetto sfumò. Disse che scrivere una sola opera a Napoli ne valeva cento realizzate in Germania. Non a caso ambientò Così fan tutte qui, come testimonianza di un amore che durava anche a distanza. Ecco io voglio omaggiare questo suo desiderio mancato, ne avverto tutta la responsabilità. E farlo con mio padre al San Carlo è il massimo che potessi desiderare».
In che modo tradurrà tutto questo in regia?
«Per me, Così fan tutte è il trionfo degli elementi, dal ma-
re che sconfina nel cielo a quella luce speciale di Napoli che è trasparenza e in Mozart si fa tessitura musicale. Soave sia il vento \ tranquilla sia
l’onda... (canticchia ancora ndr). Immagino un acquario con un fluttuare di personaggi, elementi impalpabili perché questa è un’opera metafisica e la lettura più idonea mi pare quella psicologica: altro che libretto brutto per una musica magnifica! Quello di da Ponte è un trattato sull’animo umano, una profondissima riflessione sull’amore, sul desiderio e le coppie. È un’opera-specchio: ciò che fanno tutte non è “mentire” ma “sognare”. Mozart non era affatto misogino come è stato detto, amava molto le donne. Qui riflette sulla differenza tra la visione femminile e quella maschile. Il desiderio delle donne è dissociato dall’oggetto, negli uomini è invece nell’oggetto che si concretizza. Il travestimento dei fidanzati ideato dal cinico filosofo Don Alfonso non è una farsetta da marionette, svela piuttosto un meccanismo profondo: il non riconoscere l’altro anche quando si crede di amarlo, perché la passione è proiezione non sempre realtà. In questo c’è un po’ la perdita dell’innocenza. Tanto è vero che le coppie riuscite sono quelle invertite non quelle originarie. Si sceglie chi non si ama pare dire Mozart. E qui leggo un suo dato autobiografico: ama la cantate Aloysia ma sposa la sorella Constanze che, scrive, “non è di certo una brutta ragazza, ma al tempo stesso è lontana dall’essere bella”. Ogni scelta comporta una perdita: è il riverbero della malinconia mozartiana. Riflessione psicologica e riflessi di luce, questa è la mia chiave».
Lei ha studiato al Piccolo. Strehler sistemò il caffè napoletano dell’incipit davanti al San Carlo. Poi c’è la versione di Roberto De Simone sempre con suo padre sul podio. Farà delle citazioni?
«Non userò nessun elemento naturalistico per indicare la città che è già tutta nella musica, ma può darsi che qualche citazione altra ci sarà».
Papà mi ripete: non sei nata a Napoli ma ce l’hai nel sangue Come mia nonna che volle partorire qui È il primo Mozart insieme e questa è l’opera della mia vita Della città esalterò la luce e il mare