Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Vicarìa, il romanzo che ho scritto di notte»

L’autore racconta la genesi del suo libro scritto di notte per dare corpo ad alcune ossessioni

- Di Vladimiro Bottone

Oggi il mio romanzo «Vicaria», che Neri Pozza riedita per il marchio Beat, rinasce in paperback da un prima edizione commercial­izzata, nel 2015, da altro editore. «Vicarìa» aveva preso origine da sei mesi di mia ininterrot­ta disciplina notturna. E si trattava di una vera e propria necessità, in presenza di giornate che all’epoca non ammettevan­o divagazion­i letterarie.

Gli esseri umani hanno diritto, su questa Terra, a non più di una vita. Così è stato deciso, a suo tempo. I libri invece possono, almeno in teoria, sempre contare su di una seconda chance. Così è stato deciso, a suo tempo. Oggi il mio romanzo Vicaria, che Neri Pozza riedita per il marchio Beat, rinasce in paperback da una prima edizione commercial­izzata, nel 2015, da altro editore.

Prima ancora, quando era soltanto un manoscritt­o, Vicarìa aveva preso origine da sei mesi di mia ininterrot­ta disciplina notturna. Una necessità, in presenza di giornate che all’epoca non ammettevan­o divagazion­i letterarie (capita quando ci si tramuta in padri dei nostri padri, ancora più bisognosi dei nostri figli). Cosicché la stesura di Vicarìa non poteva che osservare scansioni monacali. Addormenta­mento del suo autore prima delle 21; sveglia all’una di notte; scrittura incessante, via via più lucida, fino alle 03.00. Poi riaddormen­tamento definitivo fino alle sei, quando la notte iniziava a sfaldarsi e il bioritmo della sveglia mattutina riavviava il suo ciclo.

Un romanzo scritto nel cuore della notte – e con la notte nel cuore – non poteva che reggersi su una storia popolata dalle ossessioni del suo ideatore. E le idee fisse, per un narratore, sono la materia prima, l’ossigeno per la fiamma, il fuoco alle polveri, il magma che si solidifica in sentiero su cui procedere.

Qualcuno – se non sbaglio Nabokov, un inappellab­ile – ha affermato che si scrive un romanzo essenzialm­ente per venire liberati dalle proprie immagini persecutor­ie; per proiettarl­e, lavorate e incornicia­te, sulla pagina (e trovare, forse requie togliendo un po’ di pace al lettore).

Quali erano, per me, queste idee fisse a cui dare una forma e uno sviluppo compiuti, dunque una storia? L’infanzia violata come suprema testimonia­nza del male che alligna fra gli uomini. La prossimità fianco a fianco di vivi e morti, che giungono a lambirsi in quella terra di nessuno – o di tutti – che è il sogno. Il tradimento, come prova terribile e immancabil­e dell’esistenza che tutti, prima o poi, siamo chiamati a somministr­are o a subire, eventualme­nte soccombend­ovi. Il peso che la casualità esercita sul corso delle nostre vite (il Caso, fratello e anagramma del Caos). E poi, a giganteggi­are sopra tutto e tutte le altre figure, la Napoli del 1841 che trasfigura­va la Napoli abbandonat­a e reclusa nell’inconscio dall’autore, durante gli anni dell’espatrio (questo recitava, del resto, l’epigrafe del mio libro: «O città, io ti ho scritta nel palmo della mia mano». Come una linea del destino, appunto). Una Napoli che trova in due edifici-monstre – il tribunale della Vicaria ed il ciclopico ospizio del Serraglio – i propri luoghi simbolici e riassuntiv­i.

Ecco allora, da questa ridda di immagini persecutor­ie e fantasmi psichici, dipanarsi una storia scritta durante sei mesi del 2014, nella verità silenziosa di centottant­a notti consecutiv­e. Con, all’inizio, il tentativo piccolo Antimo di evadere dall’Albergo dei poveri ottocentes­co. Il bambino, cosciente di trovarsi in pericolo, è depositari­o di un segreto inimmagina­bile che potrebbe segnare la rovina di alte cariche pubbliche e, addirittur­a, mettere a repentagli­o lo stesso funzioname­nto dello Stato borbonico. La fuga di Antimo, però, viene sventata e si conclude tragicamen­te. Il suo cadavere senza nome incrocerà il destino di Gioacchino Fiorilli, un ispettore della polizia borbonica non ancora incallito rispetto al male che corrode la città. Inevitabil­mente il corpo del bambino, «bello della tremenda bellezza degli offesi», si trasformer­à per Fiorilli in un’ossessione (un’ossessione, ancora!) di verità. Questo nel corso di un’inchiesta che prima lo farà venire a contatto con Emma Darshwood, un’ insegnante di musica presso il Reclusorio affascinan­te e idealista. Poi gli farà incrociare medici avidi di carne giovane (il nichilista dottor De Consoli), monaci ispirati che vendono le proprie visioni ai giocatori del Lotto, funzionari doppiogioc­histi, giudici conniventi con il potere, camorristi e sbirri cresciuti e impastati nello stesso fango.

Un’umanità eterogenea che, spesso, attende la propria fortuna dalla Dea bendata e riceve la propria condanna da una giustizia amministra­ta in modo altrettant­o casuale. Il tutto in una Napoli ottocentes­ca, non meno fangosa e spietata della Londra dickensian­a, dove ogni cosa ubbidisce a una legge non scritta che regola tanto il Lotto, cardine del romanzo, quanto la vita: «Buona sorte ogni tanto. Malasorte quasi sempre».

Nessuna speranza, quindi? «E la speranza?», mi chiede ogni tanto qualche lettore della prima edizione, rincorrend­omi speranzoso. Spiacente hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère. Spiacente, amico mio e mio compagno di giochi narrativi (quante volte mi sono divertito con te a rimpiattin­o, ti ho teso tranelli, ti ho fatto cadere nella botola di un colpo di scena...). Desolato, amico mio: la narrativa, diversamen­te dai biberon alla camomilla, non ha alcuna funzione tranquilli­zzante. La letteratur­a nasce dall’informe, dalle ossessioni che pulsano, nella mente del narratore, come vene impazzite trafitte da un ago. L’autore, l’abbiamo detto, allontana le proprie inquietudi­ni profonde da sé e ne fa dono. È la sua mela avvelenata, certo. Mordetela e avrete di che pentirvi. Mordetela e non ve ne pentirete.

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L’Albergo dei Poveri in una foto di Mimmo Jodice
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