Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Vicarìa, il romanzo che ho scritto di notte»
L’autore racconta la genesi del suo libro scritto di notte per dare corpo ad alcune ossessioni
Oggi il mio romanzo «Vicaria», che Neri Pozza riedita per il marchio Beat, rinasce in paperback da un prima edizione commercializzata, nel 2015, da altro editore. «Vicarìa» aveva preso origine da sei mesi di mia ininterrotta disciplina notturna. E si trattava di una vera e propria necessità, in presenza di giornate che all’epoca non ammettevano divagazioni letterarie.
Gli esseri umani hanno diritto, su questa Terra, a non più di una vita. Così è stato deciso, a suo tempo. I libri invece possono, almeno in teoria, sempre contare su di una seconda chance. Così è stato deciso, a suo tempo. Oggi il mio romanzo Vicaria, che Neri Pozza riedita per il marchio Beat, rinasce in paperback da una prima edizione commercializzata, nel 2015, da altro editore.
Prima ancora, quando era soltanto un manoscritto, Vicarìa aveva preso origine da sei mesi di mia ininterrotta disciplina notturna. Una necessità, in presenza di giornate che all’epoca non ammettevano divagazioni letterarie (capita quando ci si tramuta in padri dei nostri padri, ancora più bisognosi dei nostri figli). Cosicché la stesura di Vicarìa non poteva che osservare scansioni monacali. Addormentamento del suo autore prima delle 21; sveglia all’una di notte; scrittura incessante, via via più lucida, fino alle 03.00. Poi riaddormentamento definitivo fino alle sei, quando la notte iniziava a sfaldarsi e il bioritmo della sveglia mattutina riavviava il suo ciclo.
Un romanzo scritto nel cuore della notte – e con la notte nel cuore – non poteva che reggersi su una storia popolata dalle ossessioni del suo ideatore. E le idee fisse, per un narratore, sono la materia prima, l’ossigeno per la fiamma, il fuoco alle polveri, il magma che si solidifica in sentiero su cui procedere.
Qualcuno – se non sbaglio Nabokov, un inappellabile – ha affermato che si scrive un romanzo essenzialmente per venire liberati dalle proprie immagini persecutorie; per proiettarle, lavorate e incorniciate, sulla pagina (e trovare, forse requie togliendo un po’ di pace al lettore).
Quali erano, per me, queste idee fisse a cui dare una forma e uno sviluppo compiuti, dunque una storia? L’infanzia violata come suprema testimonianza del male che alligna fra gli uomini. La prossimità fianco a fianco di vivi e morti, che giungono a lambirsi in quella terra di nessuno – o di tutti – che è il sogno. Il tradimento, come prova terribile e immancabile dell’esistenza che tutti, prima o poi, siamo chiamati a somministrare o a subire, eventualmente soccombendovi. Il peso che la casualità esercita sul corso delle nostre vite (il Caso, fratello e anagramma del Caos). E poi, a giganteggiare sopra tutto e tutte le altre figure, la Napoli del 1841 che trasfigurava la Napoli abbandonata e reclusa nell’inconscio dall’autore, durante gli anni dell’espatrio (questo recitava, del resto, l’epigrafe del mio libro: «O città, io ti ho scritta nel palmo della mia mano». Come una linea del destino, appunto). Una Napoli che trova in due edifici-monstre – il tribunale della Vicaria ed il ciclopico ospizio del Serraglio – i propri luoghi simbolici e riassuntivi.
Ecco allora, da questa ridda di immagini persecutorie e fantasmi psichici, dipanarsi una storia scritta durante sei mesi del 2014, nella verità silenziosa di centottanta notti consecutive. Con, all’inizio, il tentativo piccolo Antimo di evadere dall’Albergo dei poveri ottocentesco. Il bambino, cosciente di trovarsi in pericolo, è depositario di un segreto inimmaginabile che potrebbe segnare la rovina di alte cariche pubbliche e, addirittura, mettere a repentaglio lo stesso funzionamento dello Stato borbonico. La fuga di Antimo, però, viene sventata e si conclude tragicamente. Il suo cadavere senza nome incrocerà il destino di Gioacchino Fiorilli, un ispettore della polizia borbonica non ancora incallito rispetto al male che corrode la città. Inevitabilmente il corpo del bambino, «bello della tremenda bellezza degli offesi», si trasformerà per Fiorilli in un’ossessione (un’ossessione, ancora!) di verità. Questo nel corso di un’inchiesta che prima lo farà venire a contatto con Emma Darshwood, un’ insegnante di musica presso il Reclusorio affascinante e idealista. Poi gli farà incrociare medici avidi di carne giovane (il nichilista dottor De Consoli), monaci ispirati che vendono le proprie visioni ai giocatori del Lotto, funzionari doppiogiochisti, giudici conniventi con il potere, camorristi e sbirri cresciuti e impastati nello stesso fango.
Un’umanità eterogenea che, spesso, attende la propria fortuna dalla Dea bendata e riceve la propria condanna da una giustizia amministrata in modo altrettanto casuale. Il tutto in una Napoli ottocentesca, non meno fangosa e spietata della Londra dickensiana, dove ogni cosa ubbidisce a una legge non scritta che regola tanto il Lotto, cardine del romanzo, quanto la vita: «Buona sorte ogni tanto. Malasorte quasi sempre».
Nessuna speranza, quindi? «E la speranza?», mi chiede ogni tanto qualche lettore della prima edizione, rincorrendomi speranzoso. Spiacente hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère. Spiacente, amico mio e mio compagno di giochi narrativi (quante volte mi sono divertito con te a rimpiattino, ti ho teso tranelli, ti ho fatto cadere nella botola di un colpo di scena...). Desolato, amico mio: la narrativa, diversamente dai biberon alla camomilla, non ha alcuna funzione tranquillizzante. La letteratura nasce dall’informe, dalle ossessioni che pulsano, nella mente del narratore, come vene impazzite trafitte da un ago. L’autore, l’abbiamo detto, allontana le proprie inquietudini profonde da sé e ne fa dono. È la sua mela avvelenata, certo. Mordetela e avrete di che pentirvi. Mordetela e non ve ne pentirete.