Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’unione fa la forza
È opportuno che un ristoratore che vuole valorizzare i suoi piatti sia in grado di fornire una scelta adeguata di bianchi e rossi specie dal punto di vista qualitativo
Dal tempo in cui il cameriere, non dando al cliente nemmeno il tempo di sedersi, chiedeva «Bianco o rosso?» è trascorsa un’era geologica. La cultura del vino è cresciuta in misura esponenziale anche in quelle regioni d’Italia, tra cui la Campania, nelle quali l’arretratezza del costume alimentare era ancora massima. Il vino, da comparsa, o da interprete comunque marginale, si è fatto largo nella gerarchia del pasto. Addirittura, talvolta, si spinge oltre al ruolo di coprotagonista prendendo il sopravvento assoluto. «Stasera vorrei bere un Taurasi d’annata, magari passo in salumeria per comprare qualche formaggio di qualità». È il cibo che si adegua al vino. I termini dell’abbinamento spesso sono rovesciati: vinocibo. Senza spingere il ragionamento all’eccesso, è innegabile l’importanza crescente dell’offerta liquida anche nei ristoranti. Per questo è opportuno che un ristoratore interessato a valorizzare i piatti della propria cucina sia in grado di fornire una scelta adeguata di etichette. Soprattutto dal punto di vista qualitativo. Eh sì, perché non è il solo numero delle bottiglie che conferisce importanza a una carta ma la possibile concordanza col cibo. Esempio. Tra i piatti più gettonati del momento indubbiamente v’è il crudo di mare, ormai proposto in trattoria come nei locali di fascia alta, senza dimenticare i ristoranti specializzati nella cucina giapponese.
Ebbene, la logica sensoria imporrebbe un’offerta di bollicine, almeno italiane, tale da creare una sinergia vincente col cibo. E, naturalmente, anche la scelta delle referenze dovrebbe denotare a monte competenza e consapevolezza. Non sempre accade, anzi, sulla base dell’esperienza personale, è più probabile che non accada. Attenzione, come detto, non è necessario proporre chissà cosa. Un paio di referenze di spumanti metodo classico regionali, tanto per evidenziare la territorialità, tre Franciacorta di tipologie diverse, altrettanti Trento doc possono bastare. Col tempo si può pensare a qualche meditato inserimento di Champagne. Et voilà, il gioco è fatto. Se si serve il crudo di mare, insomma, non si deve necessariamente avere la carta delle bollicine di un tre stelle Michelin. Ma basta limitare l’offerta alle bottiglie giuste, evitando concessioni sbagliate alle mode.
Più chiaramente: il Prosecco, inteso spesso come sinonimo di bollicina generica lì dovè è invece una precisa denominazione, ha certamente una dignità non disprezzabile, a patto che venga bevuto su una fettina di culatello o su una torta rustica al formaggio. Immaginarlo su un’ostrica della Normandia o su uno scampo del mar d’Irlanda fa letteralmente venire i brividi. Almeno a quei consumatori avvertiti che hanno colto l’importanza del vino a tavola ben prima che diventasse una moda.
La nuova cultura Le bottiglie stanno prendendo il sopravvento sulle pietanze e i termini dell’abbinamento spesso sono rovesciati