Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL NODO DELLE SOCIETÀ PARTECIPATE
Prendendo come riferimento la base nazionale, più del 20% delle amministrazioni campane ha attivato procedure di dissesto finanziario (Fondazione nazionale commercialisti, 2017). E questa è solo la punta dell’iceberg. Ampliando il discorso fino a comprendere anche le molteplici articolazioni aziendali proliferate nel tempo, la situazione presenta ulteriori tratti di inquietudine. Solo in regione si contano 346 società partecipate, circa il 5% del complessivo Italia, con una posizione egemonica nel Mezzogiorno, seppure solo numerica, se si considera che in termini occupazionali danno impiego a 27.660 addetti (Istat, 2017). Troppe o poche che siano, sorvolando sulla questione della loro contrazione ostentata da molte amministrazioni (da 8 mila a mille), ma spesso ridotta a mera quanto infeconda propaganda politica, la vera azione riformatrice dovrebbe, al contrario, concentrarsi sull’opportunità dell’eventuale salvaguardia di tali organizzazioni, avendo a riferimento la tutela dell’interesse pubblico (nel rispetto del principio metodologico del rasoio di Ockham), unitamente alla verifica dello stato di salute degli organismi collegati. In tale direzione si sta muovendo l’introduzione del Testo unico sulle società partecipate, che, insieme ai numerosi rinvii e correttivi che ne hanno caratterizzato l’approvazione, ha il pregio di aver messo in campo una revisione razionalizzata delle partecipazioni societarie (come il«piano di razionalizzazione», presentato nei giorni scorsi dagli enti), prevedendo correttamente la fallibilità di tali organizzazioni alla stregua delle aziende private.
Certo, l’infelice partita delle aziende partecipate spesso può portare ad esprimere giudizi frettolosi e fallaci sulla inutilità di siffatte forme di gestione dei servizi pubblici, scaricando i risultati dei ripetuti insuccessi solo sugli strumenti adoperati. Se dunque un’azione riabilitativa delle strumentazioni si rende necessaria, andrebbe al contempo più ampiamente dibattuto il distorto impiego da parte degli attori politico-istituzionali, che soventemente vi hanno individuato serbatoi di mantenimento e accrescimento del consenso, dimenticando del tutto i riverberi sulle collettività localizzate, sia sotto il profilo economico – si veda l’aumento di imposte e tributi locali — sia sociale, con riferimento alla questione occupazionale. Il ruolo di controllo esercitato dalle istituzioni non può restare vacuo e inefficace.
Anzi, esso deve essere più aspramente sanzionato laddove sia frutto di incompetenze, leggerezze e, soprattutto, attenzione al proprio «particulare». L’effettiva applicabilità prima e la reale messa in opera di meccanismi sanzionatori poi, sia per la proprietà pubblica (principalmente in ordine all’accentuazione della responsabilità politica per il controllore e per il controllato), sia per la struttura aziendale degenerata, potrebbero chiudere il cerchio. Si inaugurerebbe, così, una nuova stagione, lasciando finalmente che il pregresso sia solo storia.