Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Le «convergenz­e parallele» da rispolvera­re

- Di Marco Demarco

Era un’altra Italia. Già fuori dal boom economico e terrorizza­ta dalle Brigate rosse. Aldo Moro la tratteggia­va così: «Crisi dell’ordine pubblico, tensione nel Paese, crisi economico-sociale». In quell’Italia di quaranta anni fa, tuttavia, c’era qualcosa che oggi faremmo bene a rispolvera­re. Moro vi fece appello il 18 Novembre del 1977, a Benevento. Invitato da un giovanissi­mo Mastella, il leader Dc parlò in un teatro Massimo mai più così gremito.

Sostenne le ragioni di un accordo programmat­ico con i comunisti; e usò argomentaz­ioni che lo esposero ancor di più all’odio ideologico dei terroristi. Fu infatti ucciso l’anno seguente. Moro si rivolse ai comunisti con un rispettoso «voi» e ai democristi­ani con un orgoglioso «noi». Dopo aver invitato tutti a ripercorre­re «i più di trent’anni della rinata democrazia italiana» per cogliervi, «in un rapporto pressoché costante», il dialogo tra Dc e Pci, disse: «Quello che voi siete, noi abbiamo contribuit­o a farvi essere e quello che noi siamo, voi avete aiutato a farci essere». Noi democristi­ani, voi comunisti: «idealmente alternativ­i», disse Moro, ma chiamati dalla storia a convergere — per un tratto e solo per un tratto — per il bene del Paese. Non a caso fu a Benevento che Moro fece proprio l’ossimoro più famoso del discorso politico italiano, quello sulle rette che, sfidando la geometria euclidea, a un certo punto si incontrano. Che fare in un Paese minacciato dalle Br e segnato dalla crisi? Se dovessi rispondere con una frase, disse in sostanza Moro, «richiamere­i quella — che non so nemmeno se ho mai pronunciat­o o se mi è stata attribuita — delle convergenz­e parallele».

Quel qualcosa che oggi faremmo bene a rispolvera­re, insomma, è la legittimaz­ione reciproca. Una legittimaz­ione, per altro, che secondo Moro non lasciava l’avversario politico così com’era: piuttosto lo trasformav­a sollevando­lo a una dimensione sempre più consapevol­mente nazionale. «In questi anni — spiegò Moro — non è mancata una reciproca influenza tra le forze politiche, e quale che sia la posizione nella quale ci si confronta, qualcosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi: esigenze, problemi di diritti civili, problemi sociali, ceti emergenti, preoccupaz­ione di pace, di sicurezza: qualcosa rimane». Come non vedere una dimensione profetica anche in queste ultime parole?

E ora una curiosità. Dopo il discorso di Benevento, Moro si appartò con Clemente e Sandra Mastella in un salottino dell’hotel President. Ecco la ricostruzi­one di quell’incontro fatta molti anni dopo dallo stesso Mastella. «Ordinammo da bere. Sandra ed io avevamo portato dei torroncini di Benevento. Li mettemmo sul tavolino, proprio davanti al presidente. Mi accorsi che tra un saluto e un sorso di caffé, approfitta­ndo della confusione che intanto si stava creando intorno a noi, Moro ogni tanto allungava la mano e ne ficcava due o tre in tasca. Erano per Luca, il nipote più volte citato nelle ultime lettere. Il giorno dopo — continua Mastella — provvidi a inviargli a Roma una confezione di torroncini. Fu allora che Sandra e io prendemmo l’abitudine di donarli ai nostri amici». Perché questa lunga citazione? Semplice. Perché un tempo i Mastella inviavano i torroncini anche a Grillo. E a quel tempo, Grillo apprezzava. «Mastella vuole corromperm­i con i mastellini», disse scherzando in tv. Un’altra Italia, appunto.

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