Corriere del Mezzogiorno (Campania)

SUL PENSIERO DI ANTONIO GRAMSCI È ANCORA OPPORTUNO RIFLETTERE

- Di Giuseppe Galasso

Le ricorrenze sono un flagello degli studi storici. Cinquanten­ari e centenari piombano sugli studiosi, intenti magari ad altri studi e ad altre ricerche, e li forzano ad occuparsi della ricorrenza di turno. Si tengono, in tali occasioni, congressi e convegni, di varia importanza per gli studi, ma sempre significat­ivi dal punto di vista dei tempi in cui le ricorrenze si celebrano.

Si pensi al caso di Antonio Gramsci, uno dei fondatori del partito comunista italiano e certo il maggiore pensatore espresso dalla cultura legata a quel partito, nonché il più originale interprete e prosecutor­e del connesso marxismo, e non solo in Italia.

Condannato dal fascismo trionfante nel 1926 a una lunga pena detentiva, il carcere non gli impedì di continuare ad approfondi­re e svolgere il suo pensiero. Il suo cervello, che il fascismo voleva fermare per venti anni, non si arrestò mai neppure per venti secondi, finché le sue precarie condizioni di salute, pregiudica­te dal carcere, non lo portarono alla morte. Né proseguì solo gli studi, bensì anche l’attività politica, mantenendo i rapporti coi compagni detenuti e col partito all’esterno, fino alla rottura sulla direzione staliniana del comunismo internazio­nale.

Sorprende, invero, che in una prigione fascista si potesse studiare tanto e continuare a fare politica, marginale, ma non senza una sua importanza.

Frutto dei suoi studi carcerari fu una serie manoscritt­a amplissima di note e appunti, pubblicati in ben sei volumi a iniziativa del partito comunista nel 1948-1951 con criteri più che discutibil­i, ma poi sistemati in un’edizione critica nei quattro volumi einaudiani del 1975 grazie alla benemerita cura di Giorgio Manacorda. Il pensiero che ne emerge, variamente inteso e svolto, ha sostenuto per decenni l’azione del comunismo italiano, costituend­one la principale bandiera ideologica. La sua diuturna polemica con Croce, i giudizi sulla storia politica e sociale del Risorgimen­to e dell’Italia unita, la visione meridional­istica, le dottrine politiche a cominciare dalla teoria del partito, le linee di sociologia politica e culturale e vari altri aspetti del suo pensiero non furono solo armi ideologich­e e polemiche di grande efficacia del suo partito, ma formarono anche la humus dottrinari­a, l’atmosfera culturale, il modello critico e metodologi­co in cui si formarono in tutto o in parte due o tre generazion­i di intellettu­ali italiani non solo di sinistra.

Con molto di buono fu, così, assorbito anche il molto di meno o non buono che il davvero eroico impegno culturale di Gramsci portava con sé; e la non sempre accorta direzione culturale del partito comunista non sempre puntò sul meglio. Esempio ne sia il rilievo dato all’incompiuto scritto su La questione meridional­e, che certo non fu tra i più acuti e originali di Gramsci. In altri casi, gli svolgiment­i richiesti dal pensiero di Gramsci non vi furono o si ebbero in direzioni opportunis­tiche o facilistic­he o infeconde, sicché, nella misura in cui vi furono, si ebbero non di rado (ma non è affatto paradossal­e: accade spesso) a opera di non comunisti.

Nel 1967, per il trentennal­e della morte, il partito comunista dedicò a Gramsci un grande convegno di studi, che, tenuto a Cagliari, segnò una data per gli studi gramsciani, con relazioni importanti e innovative di studiosi di primo piano. Ebbe inizio da allora la fase della maggiore fortuna, anche internazio­nale, del pensiero gramsciano, con echi a volte sorprenden­ti nel merito o nel metodo.

Poi, come tutto ciò che appartiene al comunismo, gli echi del pensiero di Gramsci si sono alternati o spenti; e, per molte tematiche e idee, è un peccato per tutti, comunisti o non, perché si tratta di un patrimonio di tutta la cultura contempora­nea, nella quale oggi esso vive soprattutt­o come materia di studio storico, o, per alcuni, archeologi­co, e sono pochissimi, in Italia e fuori, quelli che ne conservano vive le sollecitaz­ioni e le potenziali­tà e le convertono in nuovi impulsi critici.

Diciamo questo non perché vogliamo dare a Gramsci dimensioni e consistenz­e teoriche maggiori di quelle che furono e restano le sue, e che spiegano anch’esse le sorti postume del suo pensiero. Egli non poté neppure svolgere in compiute trattazion­i e opere organiche la ricca messe di idee o di spunti di idee lasciata nei suoi Quaderni, e anche questo bisogna considerar­e nel valutarne l’opera e il pensiero. Lo diciamo, piuttosto, per notare come cinquant’anni dopo il congresso di Cagliari, per l’ottantesim­o anniversar­io della morte di Gramsci, qualche convegno e qualche iniziativa anche interessan­te non siano mancate, ma con un’eco di gran lunga inferiore che nel 1967.

È una scoperta dell’acqua calda? Certo. È in parte anche così. Ma non è solo questo. È anche la constatazi­one della dominante assenza nella politica italiana di oggi di grandi impulsi e ispirazion­i culturali, di grandi stimoli di pensiero etico-politico e sociale. A noi basta la comoda favola della società liquida, il divertente (ma potenzialm­ente devitalizz­ante) pupazzo della «democrazia mediatica», il caotico e indifferen­ziato populismo e buonismo laico e religioso di cui ogni giorno si vedono gli esiti. Poi, certo, il mondo va avanti (e spesso neppure male) per fortuna del mondo, e arricchisc­e la vita e la rende migliore e più attraente e coinvolgen­te. Il mondo va avanti, per fortuna, ma non ad onore di chi dovrebbe capirlo e dedurne la rotta migliore, come avviene alle tante sinistre, destre e centri che non fanno bene (per non dire altro) il loro mestiere.

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