Corriere del Mezzogiorno (Campania)
MOVIDA E PUBBLICO IMPIEGO
Èancora il caso di sorprendersi e sperare che qualcosa cambi? Forse no. Eppure la sparatoria tra i baretti di Chiaia — che è meglio chiamare «movida insanguinata» o se si vuole «corrida» (in senso metaforico) — suscita impressioni tristi e vaghe riflessioni sul da farsi, nei pochissimi napoletani che ancora s’illudono di poter vivere in un luogo normale. Impressiona, per esempio, sentir dire al capo della polizia Gabrielli che la situazione è preoccupante ma non si possono fare miracoli. Oppure che il sindaco de Magistris dica che l’ordine pubblico compete al governo e non lo riguarda e si auto-consoli con la sua bella ordinanza sindacale. Meno male che il procuratore Melillo vuole organizzare un pool di intelligence almeno per capire provenienza e appartenenza degli adolescenti armati in libera scorribanda a notte inoltrata nelle cosiddette «zone-bene». Non può mancare poi, per l’ennesima volta (che non sarà l’ultima), una riflessione sul contesto socio-antropologico nel quale siamo costretti a vivere. Vale a dire sulla spirale dei comportamenti perversi dei napoletani, un vero e proprio cancro sociale in metastasi. Aumenta infatti l’inciviltà di quanti hanno rinunciato a credere, accanto a quelli che non l’hanno mai capito, che i pessimi comportamenti individuali rendono insopportabile la vita collettiva: al centro, in collina, nelle periferie. Una banalità, questa, sconosciuta ai «cattivi» e dimenticata dai «buoni»: sicché cresce a vista d’occhio il numero di quanti, in un modo o nell’altro, abbracciano il modello camorristico e si fanno giustizia da soli, magari rispondendo con l’ascia a uno sgarbo stradale.
I primi hanno conquistato il dominio del territorio per affari loschi e spaccio di droga e non vogliono perderlo; i secondi temono di esserne schiacciati e cercano di non soccombere, senza capire che si danno la zappa sui piedi . La conseguenza più grave è la scomparsa del «controllo sociale»: che è il presupposto del vivere civile, perché le regole elementari della convivenza si trasmettono di padre in figlio, quasi senza accorgersene, in quanto patrimonio di una storica coscienza collettiva. Ciò che a Napoli non c’è più. E allora si prende a invocare il «controllo repressivo»: riunioni in prefettura del comitato per la sicurezza; più forze dell’ordine; più telecamere; intervento dell’esercito, eccetera. E qui, come suol dirsi, casca l’asino. Quando entra in gioco il potere delle pubbliche amministrazioni lo sconforto prende il sopravvento.
Anzitutto il personale amministrativo, che dovrebbe essere la spina dorsale dell’organizzazione civile, per un verso è sottodimensionato perché non ci sono soldi e non si assumono forze giovani; e, per un altro verso, risente esso stesso del contesto prima descritto. Ci saranno pure alcuni uffici meno disastrati, ma per la maggior parte le funzioni e i servizi pubblici sono gestiti da persone anziane, stanche, spesso incompetenti, a volte corrotte. Se non sbaglio, dalla dirigenza all’ultimo usciere, l’età media dei lavoratori pubblici sfiora i sessant’anni. Per esempio: quando mi capita, raramente, di incontrare dei vigili urbani, noto molti capelli bianchi, soggetti sovrappeso e per nulla motivati: forti con i deboli e deboli con i forti. Mi pare che di recente siano stati assunti giovani vigili, ma quando mi capita di incontrarli, sempre raramente, trovo che essi, forse perché non ben selezionati o male addestrati, anziché introdurre nuovi modelli di comportamento, abbiano finito per essere influenzati da quelli vecchi. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito se si va in giro per le varie amministrazioni: statali, regionali o comunali che siano.
Perciò la solita domanda: che fare? Lo svecchiamento dei lavoratori pubblici con la massiccia assunzione di giovani, da formare con criteri nord-europei, mi pare una necessità indifferibile, a suo tempo intuita dallo stesso governatore De Luca. Come indifferibile è la riorganizzazione scientifica dei servizi alla collettività, specie di quelli cui spetta la manutenzione del territorio e delle infrastrutture (dagli edifici pubblici alle scuole, dagli alberi ai mezzi di trasporto, eccetera) e il controllo sugli abusi di ogni genere. Certo qualche esempio di buone pratiche, da parte di politici e amministratori, non guasterebbe. Si sa che al sindaco de Magistris piace molto lo slogan «Napoli città ribelle», ma non è tanto chiaro a cosa i napoletani dovrebbero ribellarsi: alla camorra, all’illegalità, ai fattori antisociali, all’arbitrio amministrativo? Oppure a quella cultura delle regole che altrove assicura, non a chiacchiere, la salvaguardia dei beni comuni? Nessuno è contento della militarizzazione del territorio, tranne che non serva a reprimere i ribellismi intollerabili e a garantire la democrazia e la libertà di tutti.