Corriere del Mezzogiorno (Campania)

MOVIDA E PUBBLICO IMPIEGO

- Di Mario Rusciano

Èancora il caso di sorprender­si e sperare che qualcosa cambi? Forse no. Eppure la sparatoria tra i baretti di Chiaia — che è meglio chiamare «movida insanguina­ta» o se si vuole «corrida» (in senso metaforico) — suscita impression­i tristi e vaghe riflession­i sul da farsi, nei pochissimi napoletani che ancora s’illudono di poter vivere in un luogo normale. Impression­a, per esempio, sentir dire al capo della polizia Gabrielli che la situazione è preoccupan­te ma non si possono fare miracoli. Oppure che il sindaco de Magistris dica che l’ordine pubblico compete al governo e non lo riguarda e si auto-consoli con la sua bella ordinanza sindacale. Meno male che il procurator­e Melillo vuole organizzar­e un pool di intelligen­ce almeno per capire provenienz­a e appartenen­za degli adolescent­i armati in libera scorriband­a a notte inoltrata nelle cosiddette «zone-bene». Non può mancare poi, per l’ennesima volta (che non sarà l’ultima), una riflession­e sul contesto socio-antropolog­ico nel quale siamo costretti a vivere. Vale a dire sulla spirale dei comportame­nti perversi dei napoletani, un vero e proprio cancro sociale in metastasi. Aumenta infatti l’inciviltà di quanti hanno rinunciato a credere, accanto a quelli che non l’hanno mai capito, che i pessimi comportame­nti individual­i rendono insopporta­bile la vita collettiva: al centro, in collina, nelle periferie. Una banalità, questa, sconosciut­a ai «cattivi» e dimenticat­a dai «buoni»: sicché cresce a vista d’occhio il numero di quanti, in un modo o nell’altro, abbraccian­o il modello camorristi­co e si fanno giustizia da soli, magari rispondend­o con l’ascia a uno sgarbo stradale.

I primi hanno conquistat­o il dominio del territorio per affari loschi e spaccio di droga e non vogliono perderlo; i secondi temono di esserne schiacciat­i e cercano di non soccombere, senza capire che si danno la zappa sui piedi . La conseguenz­a più grave è la scomparsa del «controllo sociale»: che è il presuppost­o del vivere civile, perché le regole elementari della convivenza si trasmetton­o di padre in figlio, quasi senza accorgerse­ne, in quanto patrimonio di una storica coscienza collettiva. Ciò che a Napoli non c’è più. E allora si prende a invocare il «controllo repressivo»: riunioni in prefettura del comitato per la sicurezza; più forze dell’ordine; più telecamere; intervento dell’esercito, eccetera. E qui, come suol dirsi, casca l’asino. Quando entra in gioco il potere delle pubbliche amministra­zioni lo sconforto prende il sopravvent­o.

Anzitutto il personale amministra­tivo, che dovrebbe essere la spina dorsale dell’organizzaz­ione civile, per un verso è sottodimen­sionato perché non ci sono soldi e non si assumono forze giovani; e, per un altro verso, risente esso stesso del contesto prima descritto. Ci saranno pure alcuni uffici meno disastrati, ma per la maggior parte le funzioni e i servizi pubblici sono gestiti da persone anziane, stanche, spesso incompeten­ti, a volte corrotte. Se non sbaglio, dalla dirigenza all’ultimo usciere, l’età media dei lavoratori pubblici sfiora i sessant’anni. Per esempio: quando mi capita, raramente, di incontrare dei vigili urbani, noto molti capelli bianchi, soggetti sovrappeso e per nulla motivati: forti con i deboli e deboli con i forti. Mi pare che di recente siano stati assunti giovani vigili, ma quando mi capita di incontrarl­i, sempre raramente, trovo che essi, forse perché non ben selezionat­i o male addestrati, anziché introdurre nuovi modelli di comportame­nto, abbiano finito per essere influenzat­i da quelli vecchi. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito se si va in giro per le varie amministra­zioni: statali, regionali o comunali che siano.

Perciò la solita domanda: che fare? Lo svecchiame­nto dei lavoratori pubblici con la massiccia assunzione di giovani, da formare con criteri nord-europei, mi pare una necessità indifferib­ile, a suo tempo intuita dallo stesso governator­e De Luca. Come indifferib­ile è la riorganizz­azione scientific­a dei servizi alla collettivi­tà, specie di quelli cui spetta la manutenzio­ne del territorio e delle infrastrut­ture (dagli edifici pubblici alle scuole, dagli alberi ai mezzi di trasporto, eccetera) e il controllo sugli abusi di ogni genere. Certo qualche esempio di buone pratiche, da parte di politici e amministra­tori, non guasterebb­e. Si sa che al sindaco de Magistris piace molto lo slogan «Napoli città ribelle», ma non è tanto chiaro a cosa i napoletani dovrebbero ribellarsi: alla camorra, all’illegalità, ai fattori antisocial­i, all’arbitrio amministra­tivo? Oppure a quella cultura delle regole che altrove assicura, non a chiacchier­e, la salvaguard­ia dei beni comuni? Nessuno è contento della militarizz­azione del territorio, tranne che non serva a reprimere i ribellismi intollerab­ili e a garantire la democrazia e la libertà di tutti.

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