Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL RITORNO DEL PARTITO PERSONALE E LA DESTRUTTUR­AZIONE SOCIO-POLITICA

- di Giuseppe Galasso

Sembrava che il tempo del partito personale fosse tramontato e che, sia pure tra incertezze e oscillazio­ni, ritorni e irrequiete­zze varie, si andasse lentamente verso una faticosa ricostruzi­one del tessuto politico nazionale. Sembrava, cioè, che si venissero a ricostruir­e associazio­ni e gruppi politici fondati su comuni finalità politiche, sociali, economiche, culturali o d’altro genere non riassunte, né rias- sumibili nel nome di un capo, nel nome di un singolo uomo politico, a garanzia di una sostanza comunitari­a del fenomeno associativ­o. Si presumeva, per questo, che una partecipaz­ione legata a motivazion­i di ordine oggettivo e generale dovesse riuscire più solida, più stabile, più coinvolgen­te e personaliz­zata di quanto non potesse riuscire un impulso associativ­o rimesso unicamente alla figura di un capo, e quindi suscettibi­le di tutte le mutevolezz­e e le precarietà che le fortune e le sfortune di una singola persona inevitabil­mente, e, soprattutt­o, alla lunga, comportano. Si parlava, perciò, anche di «partiti di massa», con una espression­e discutibil­e e inaccettab­ile senza varie osservazio­ni e precisazio­ni, ma chiara nel suo significat­o di forma sociale di organizzaz­ione politica.

D’altra parte, gli andamenti della vicenda politica italiana facevano desiderare in modo particolar­e, anche al di là della questione del partito personale e di ciò che se ne può pensare, la ricostituz­ione del tessuto politico cui si è accennato. Col disfacimen­to dei vecchi partiti è, infatti, venuto meno in Italia, da almeno un ventennio, uno dei pochi fattori di aggregazio­ne sociale attivi nel paese a compenso del suo tradiziona­le, irriducibi­le, sempre e ovunque ricorrente individual­ismo, particolar­ismo o debole socialità e renitenza degli italiani alla disciplina imposta dalla vita sociale. È una constatazi­one antica, che trovò nell’Italia dei Comuni il suo maggiore riscontro storico, e che anche nelle monarchie dell’Italia centro-meridional­e e insulare trovò ugualmente modo di farsi valere. Ciò contrastav­a con altri numerosi e importanti aspetti della vita sociale italiana, che la configurav­ano come propria di una società conformist­a, molto gerarchizz­ata, aliena dal contrastar­e le norme imposte dai poteri di qualsiasi genere presenti nella sua vita sociale. E, benché questa dicotomia di comportame­nti fosse presente anche altrove, era in Italia che, a giudizio generale, la si trovava tale da potersene fare un generalmen­te riconosciu­to carattere nazionale.

Realizzata l’unificazio­ne nazionale, la politica e il sindacato portarono nel corso del tempo una forma moderna di socialità, della quale non vi erano prima, molti punti di appoggio e molti elementi favorevoli a un suo forte radicament­o. E, comunque, sopravvenu­ta la crisi europea della fine del ‘900 col connesso crollo delle ideologie che ne avevano favorito la diffusione anche in paesi di suo non facile attecchime­nto, come l’Italia, la dispersion­e di quel tanto di moderna socialità che vi aveva attecchito è stata facile e rapida. Se c’era paese europeo predispost­o al partito personale, l’Italia certamente lo era. Era, tuttavia, sembrato che a un certo punto si riprendess­e un certo cammino più conforme alle esigenze di una diversa politica, dopo che si era parlato di «stagione dei sindaci», di «partito-azienda», di «partito (e governo) dei leader» e di altre formule riportabil­i a quella del partito personale. E si è, quindi, tornati alla continuazi­one o all’accentuazi­one della destruttur­azione socio-politica che il partito personale fatalmente comporta.

I segni che se ne vedono sono eloquenti, a cominciare dall’astensioni­smo elettorale (a Ostia ha votato in ultimo un terzo degli elettori) e dai termini che assume la lotta politica all’interno dei partiti (in quello democratic­o, ad esempio, Renzi è, allo stesso tempo, il maggiore fattore aggregante della sua maggioranz­a e il maggiore fattore aggregante dell’opposizion­e di coloro che sono usciti dal partito, mentre nella più che probabile combinazio­ne di centro-destra il punto di maggiore frizione è nella renitenza dei Salvini e Meloni ad accettare la primazia, che sembra fatale, del risorto Berlusconi).

Ci si può dire: voi volete allora il ritorno ai vecchi partiti ideologici, alla loro disciplina, alle loro gerarchie? Ma rispondere è facile, perché il problema non è questo. Quei vecchi partiti sia nell’Italia prefascist­a, sia nell’Italia postfascis­ta si dimostraro­no capaci di mobilitare e portare a un militante interesse per la politica grandi masse di cittadini anche in regioni e zone – come quelle del Mezzogiorn­o – in cui le condizioni erano più difficili per un tale obiettivo, che realizzaro­no nel segno di grandi idee anche quando non furono alieni dal culto di grandi e piccole personalit­à.

Questo, per l’appunto, è il problema della disorienta­ta e sfiduciata Italia attuale: ritrovare un’idea, un progetto, una vocazione e la relativa missione, una fiducia se non una fede. Chi pensa che gli elettori tornino in massa alle urne senza di questo, si illude. La situazione politica italiana è più grave di quanto appaia. Siamo al punto che Scalfari con argomenti discutibil­i, ma certo non improvvisa­ti, trova che si possa o si debba votare Berlusconi come un meno peggio. C’è bisogno, quindi, di provvederv­i, e questo non si può fare col partito personale. Proprio la vicenda di Berlusconi (chi bene vi ci pensi) ce lo insegna.

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