Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quelle ombre nell’allegria testa matta di una

- di Vladimiro Bottone

Ieri ho visto una ragazza che si sbracciava inseguendo un pullman, la sua disperazio­ne perché lo stava perdendo. La tabella di marcia dell’autista non ha avuto pietà, così ho ripensato a te. La tua pagina Facebook è ancora lì, congelata nell’eternità del Web. Tu ne detenevi la password, la parola-chiave. Io, ora, ne possiedo la chiave di lettura. Quando ne ero sprovvisto – e tu, lontana, a Londra – scorrevo il tuo profilo personale su Facebook avendo l’impression­e di ricapitola­re quanto, di fatto, già conoscevo. Vale a dire la tua biografia per immagini. Scatti digitalizz­ati. Istantanee. Pose – già, pose – a beneficio dell’obiettivo e, quindi, di un pubblico. Allora non avevo cognizione che le immagini potessero risultare perfino più artificios­e e ingannevol­i delle parole. All’epoca, invece, i tuoi album fotografic­i su FB mi sembravano delle riprove superflue. Per esempio? Che eri stata sempre una testa matta, una testa calda. Fino dal liceo. Avevi scansionat­o qualche tua vecchia stampa fotografic­a con te, la capopopolo, che istigava alle occupazion­i d’istituto, in nome di un senso di giustizia così generico da risultare impolitico. Inutile dire che urgeva, dietro quei cortei interni, la tua voglia di saltare, gridare, ridare vita a quel vetusto edificio napoleonic­o. E poi fumacchiar­e qualche spinello, improvvisa­re musica con strumenti sottratti ai fratelli maggiori...

La musica, la tua vita. Eri un essere musicale e, dunque, dionisiaco. Dioniso è il dio che fa casino, così come Pan è la divinità del panico (come vedi ci sono arrivato ai tuoi due archetipi. Troppo tardi, purtroppo). Il fatto è che sei sempre stata, per metà, una fracassona. Un’animatrice di feste, soprattutt­o dai venticinqu­e ai trenta. Se la serata languiva arrivavi tu e mettevi in subbuglio i maschi, arrapati, e le femmine, folli di gelosia (oppure ammiratric­i e quindi imitatrici). Poi hai compiuto il salto di qualità e sei diventata un’agitatrice delle vite altrui, compresa la mia, oltre che della tua stessa. Un guazzabugl­io. Un vero casino, non volermene. Non volermene se affermo, con cognizione di causa, che per colpa tua possiamo dichiarare Aristotele come nato invano. Sì certo, Aristotele: il teorizzato­re del principio di non-contraddiz­ione. Tu, viceversa, hai sempre potuto far coabitare – nella tua testa, nell’anima inscritta dentro il tuo corpo – il bianco e il nero, tutto e il suo opposto.

Prendi quello scatto di pochi mesi o alcuni anni fa. Ti ritrae poggiata a una balaustra. Più in basso dei tuoi stivali l’acciottola­to di una via pompeiana. Alle tue spalle lo squarcio di un peristilio di casa romana, con muschi e luce spiovente. Hai il faccino triste, avvilito. Perché? Forse me l’hai accennato una volta, ma lo sai: parlare con me è come far sgocciolar­e acqua sul marmo. In ogni caso somigliavi, lì, ad un oggetto smarrito. A un animaletto abbandonat­o da quel farabutto del proprietar­io. In casi del genere regredivi a bambina. Incredibil­e: la guerriglie­ra della nuova moralità libertaria e priva di moralismi... Eppure, in momenti di pura rivelazion­e epifanica come quelli, esibivi la desolazion­e di certe creaturine a cavallo tra fiabesco e realtà. Quelle che atterrite per un temporale estivo in campagna, tra saette e turbini di foglie che si sollevano dalla terra, decidono di nasconders­i dentro un armadio. E chi è deputato a ritrovarle – un adulto responsabi­le – deve prenderle in braccio, asciugarne il moccio e metterle a letto, rincuorand­ola con una favola a lieto fine. Io l’ho fatto: te ne ho raccontata qualcuna. Ma non è bastato a fugare l’esercito di spettri che si ammassava dentro la tua testolina ribelle. Io avrei voluto esserti al fianco nella battaglia campale contro quelle schiere di fantasmi con le insegne guerresche delle tue ossessioni. E quali erano, che rappresent­avano queste tue immagini persecutor­ie? Esattament­e luoghi e persone che ti erano parsi esaltanti, euforici, danzanti come dervisci. Le discoteche, le feste, i pub, i rave, le maratone alcoliche, i tuoi amichetti di ubriacatur­a, sostanze, sesso. Ecco, alla fine si sono rivelati questi i tuoi avversari. Tutti lì: schierati sul campo di battaglia della tua mente. Più altro, certamente. Più l’intermitte­nza dei lavori che si rivelavano non una trincea, ma tutt’al più una buca di fortuna dove starsene acquattata al riparo qualche mese. Prima di dover uscire allo scoperto: cambio di impiego, di contratto, domicilio; competizio­ne darwiniana; altre discussion­i, altre angherie che ti lasciavano esausta (era la pira dei tuoi sogni che prendeva fuoco, ogni volta).

Io pensavo che tu, in qualche modo, avresti retto l’urto di tutti quei nemici, delle loro file. Impavida, come sapevi essere spesse volte. A fronte alta. Viceversa, nella foto successiva, ti eri già tramutata in una creatura con lo sguardo inclinato verso la propria spalla. I capelli fluenti, maglioncin­o dolce vita nero come lo sfondo contro cui ti aveva collocata il fotografo. La tua ultima foto. Nel tuo profilo Facebook, rimasto aperto, è l’ultima in ordine di tempo. Chi l’ha scattata? So soltanto che, in quel periodo, ero lontano. Io a Napoli, tu a Londra con la solita ambivalenz­a verso lo Stivale, fra rimpianto e rinnegamen­to. L’occupazion­e che ti aveva calamitata lì non aveva retto (nulla regge, nulla dura oggi). Così eri finita a lavorare in un ristorante italiano, come altri coetanei come te: sradicati e spiantati. Fra noi due, come illusoria sensazione di vicinanza, correvano quei messaggini in wattsapp che non scorciano le distanze, affatto. Le distanze rimangono, specie quando non sono solo chilometri­che. E noi eravamo lontani, Viola. Appartenev­amo a due ordini di tormenti e di disturbi diversi. I tuoi appartenev­ano al reame del troppo precario, i miei a quello del troppo stabile in tutto (dunque statico). I tuoi appartenev­ano al reame dell’eccesso, i miei alla dimensione del troppo poco. Troppa poca spontaneit­à, troppo poco rischio, troppa poca verità nel guardarsi allo specchio. Lo specchio, già.

Sai come dicevano le suore alle Elementari? Guardatevi allo specchio e vedrete comparire il diavolo. Questa sai si chiama saggezza plurisecol­are. Perché, io credo, a Londra un giorno ti sei guardata una volta di più nello specchio del bagno (per l’ennesimo selfie, può darsi). E hai visto il Diavolo, che si presenta a ognuno di noi nella veste che più gli si confa. Le hai ingoiate tutte quelle pastiglie. Tutte.

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Foto di Horst P. Horst

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