Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Azzurro Ho sfiorato la morte e mi chiedo perché sono vivo
Ad agosto ha subito un’aggressione dalla quale si salvò aggrappandosi a un guardrail All’Elicantropo (ri)debutta con «Scarrafunera», un Kafka al contrario Il 7 dicembre il Mercadante ha organizzato per lui una serata omaggio al Ridotto
Domani alle 21 sarà sulla scena dell’Elicantropo, che ha calcato infinite volte. Eppure stavolta sarà diverso. E non tanto perché Roberto Azzurro presenterà un lavoro nuovo, «Scarrafunera» di Cristian Izzo, recitato solo al Pausilypon a luglio. Ma perché sarà il ritorno in teatro dopo la terribile aggressione subita il 4 agosto scorso nella campagna sannita nei pressi di Paupisi, per mano di un giovane brasiliano, incontrato in quei luoghi. L’attore napoletano riportò alcune ferite da taglio ma fu vittima anche di spinte con cui l’aggressore aveva provato a farlo precipitare in un burrone ai lati della statale telesina. Salvato infine da un guardrail a cui aggrapparsi e dall’arrivo di un’auto che aveva messo in fuga l’uomo.
Innanzitutto, Roberto, oggi come sta, a distanza di circa 4 mesi da quella notte da incubo?
«Molto meglio, grazie. Ho ancora qualche problema al polso dopo l’intervento chirurgico che ha ricostruito i tendini. Ma il dottore è ottimista sui miei progressi».
E allora in scena con «Scarrafunera», un testo in cui ha ritrovato nessi con la sua vicenda personale?
«Lo avevo scelto prima di quella terribile avventura. Ma oggi, a distanza di tempo, vi ho ritrovato molte relazioni. Dalle riflessioni sulla vita e sulla morte, con le quali convivo dopo quell’esperienza, fino alle considerazioni sulla bruttura del tempo attuale».
Ma cos’è la «scarrafunera» del titolo?
«È il luogo dove vivono gli scarafaggi, sporco e abbrutito, da cui la blatta protagonista proverà ad emanciparsi diventando persona, coinvolgendosi poi in un’altra e più grande “scarrafunera”, quella umana».
Una «Metamorfosi» kafkiana al contrario?
«Sì, ma con la consapevolezza di finire in un diverso tipo di orrore».
Dal quale non c‘è uscita?
«Credo che l’unica uscita sia proprio l’arte. L’antidoto della bellezza e della libertà contro il degrado materiale e morale che ci circonda. Quando io calco le tavole di un teatro dimentico tutto e avverto una leggerezza che mi fa volare in alto. In fondo il palcoscenico è sempre stato un luogo sacro e rituale che fa da tramite fra l’umano e il divino. E quindi anche rispetto a ciò che mi è accaduto, rappresenta la terapia migliore. Così il 7 dicembre sarò anche al Ridotto del Mercadante per una serata omaggio organizzata per me dallo Stabile in cui reciterò il mio Processo a Oscar Wilde».
Wilde, Pasolini, Genet, personaggi che lei ha incontrato col suo teatro e che, a avario titolo, per la loro omosessualità, hanno vissuto esperienze simili alla sua. Ma è proprio inevitabile che ciò accada?
«È una conseguenza del vivere in modo audace, adrenalinico, come affrontare il pericolo di un trapezio senza rete, fa parte dei rischi del gioco».
Ma alla fine, cosa resta di un esperienza come la sua?
«Oltre le cicatrici, soprattutto una domanda: perché sono ancora vivo? Ora ricerco questa risposta e la missione che il mio vivere oggi comporta. Al di là della facile risposta che sono vivo perché, diversamente, avrei fatto morire di dolore anche mia madre».
E da un punto di vista teatrale?
«Una grande voglia di approfondire il mito di Orfeo, con il suo andare e tornare dall’Ade. Un percorso in cui oggi mi riconosco pienamente».
Antidoto L’unica via d’uscita è l’arte contro il degrado morale che ci circonda Sul palco io dimentico