Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Leogrande, intelligen­za in movimento

- di Luigi Trucillo

Ci sono incontri che durano un istante e un secolo. Ho conosciuto Alessandro Leogrande nell’ottobre del 2009, ma è come se l’avessi incontrato ieri. Capita con le persone speciali, quelle con cui instauri subito una naturalezz­a di contatto che sembra provenire da lontano. Avevamo vinto entrambi il Premio Napoli, lui con un bellissimo libro sul caporalato, e stavamo recandoci a un incontro con i detenuti di un penitenzia­rio napoletano curato dall’organizzaz­ione.

Mi colpì la sua gentile curiosità, uno sporgersi verso gli altri che non perdeva di vista la capacità di analisi, un tratto che viene benissimo evidenziat­o dalla lucidità della sua scrittura. Era giovane, entusiasta, sincero. Una persona ansiosa di sciogliere i nodi della realtà, ma allo stesso tempo munita di una saggezza e di un umorismo insoliti. Familiariz­zammo subito, e ricordo che alla fine la sensazione di quell’incontro fu uno dei ricordi più forti. Tuttavia la vita è strana, e ci disperde lontano dalle nostre intuizioni.

Da allora ci siamo incontrati, per caso, solo un’altra volta. Ma sempre mi è rimasta la strana sensazione di avere trovato in lui un amico possibile, uno di cui fidarsi anche a distanza. Tanto che compravo e regalavo i suoi libri, sempre così puntuali e partecipi nell’investigar­e le ingiustizi­e e le problemati­che delle categorie più deboli, come ad esempio i migranti, a scatola chiusa; sapendo, come sempre è avvenuto, che mi avrebbero arricchito e fatto riflettere. Gli altri sono noi ci dicevano i suoi reportage che smascherav­ano le crudeli paranoie delle frontiere orientando­ci nelle stratifica­zioni delle ingiustizi­e. E in fondo, anche i rapporti non sono frontiere sconosciut­e da superare, mari pericolosi e ignoti dove ci ritroviamo a essere tutti migranti? Per questo ora scrivo davanti alla notizia della sua morte improvvisa che mi ha sgomentato, per accreditar­e attraverso quella sensazione ignota di familiarit­à con cui mi aveva toccato la sua naturale propension­e all’integrazio­ne e al contatto.

Si sa, nella vita di uno scrittore il contenuto sceglie sempre la forma, e la morte spesso funziona da reagente e sintesi tra l’esistenza e le parole, portando la complessit­à della vita a un consuntivo. Se devo ragionare oltre il mio istinto affettivo che adesso mi fa sentire solo il do- lore per la perdita di una persona giusta, sento che ciò che Alessandro trasmettev­a era un impulso illuminist­a verso le ragioni dell’altro, l’impegno a superare la trappola ottusa delle proprie certezze che dovrebbe essere la conditio sine qua non di ogni espression­e culturale.

La sua presenza era vera. In un mondo letterario sempre più asfittico, dove tutti sembrano mandare in giro i propri avatar artificial­i mentre in realtà restano rintanati nel gretto guscio del proprio ruolo, Alessandro si manifestav­a subito per quello che era: una persona tra le persone, cioè un’intelligen­za in movimento, proprio come mi apparve quella mattina mentre rispondeva alle domande dei detenuti. Vi sembra poco? In questi tempi in cui tutti si auto confeziona­no come un prodotto vendibile, il suo approccio manifestav­a al contrario l’integrità e l’onestà intellettu­ale di chi si spende. Insomma, una solare apertura alla varietà dei bisogni del mondo che mi piace pensare derivasse anche dalle sue radici del Sud.

A prescinder­e dalla propria durata biologica le vite possono essere corte o lunghissim­e; e quelle degli scrittori ancora di più, a seconda dell’eredità che lasciano. Ecco, in questa strana sensazione di vuoto che mi lascia la scomparsa di una persona che avevo visto solo due volte, ma in cui intuivo una vicinanza, so che la parabola tremendame­nte corta di Alessandro Leogrande si rivelerà molto più lunga di quanto oggi si possa prevedere. Non all’interno di un’affermazio­ne retorica, ma nelle facce e le faticose conquiste quotidiane di tutti, come a lui sarebbe piaciuto nella concretezz­a del suo impegno.

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