Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL MONOPOLIO CHE MORTIFICA UNA METROPOLI
Sarà… ma Gomorra e la Rivoluzione arancione sono due prodotti da esportazione. I gusti sono gusti. Tuttavia, se come scrisse qualcuno, è la produzione che produce il consumo, allora Napoli è ammalata di monopolio spacciato per dualismo. Certo, non esiste alcun obbligo morale d’interessarsi a ciò che non è sangue, droga, frasi fatte solenni e piombo. Tanto piombo. Così come a nessun borghese può essere impedito di giocare a fare il sottoproletario, mentre i proletari vivono un aristocratico disinteresse per la Rivoluzione che esiste solo nella testa del sindaco de Magistris. Perciò, tantissimi venerano i capoclan e molti credono che Napoli sia sull’orlo di chissà quale presa di potere del popolo. Purtroppo, però, ogni produzione ha un costo. E il costo lo paga la città. E lo paga in termini di sguardi autonomi e trasversali. No. Non c’entra niente la questione dell’immagine positiva o negativa di Napoli: sono secoli che quella immagine è fatta da stereotipi a geometria variabile, che si richiamano a vicenda in un noioso gioco di specchi. Anzi, a volerne ricostruire la genealogia ci si accorge che il presente altro non è che la riedizione di stereotipi piuttosto vecchi. Il problema è che il monopolio, per sua natura, mortifica la possibilità di far nascere, coltivare e dare voce alle alternative. Come funziona? Gomorra deve incrementare sempre di più l’audience? E allora invade il teatro, il cinema, la radio, il web, i reading, le scuole, e gli oratori. Di conseguenza, gli spazi, il tempo e le risorse per tutto il resto diventano sempre meno, perché si deve consumare per forza la simbologia prodotta in eccesso. Analogamente, l’amministrazione deve giustificare le proprie incapacità per testare il bacino di consenso del sindaco in città e fuori? E allora le sue ragioni si tramutano in parole d’ordine per i recital dei replicanti suoi tifosi.
Di conseguenza, gli spazi, il tempo e le risorse per tutto il resto diventano sempre di meno, perché si deve consumare per forza la retorica prodotta in eccesso.
Per fortuna è proprio all’ombra delle monoculture che germoglia la diversità. È sempre stato così a Napoli. Una città che resta sorprendentemente capace di mostrare un distacco iconoclasta verso se stessa, prima ancora che verso il potere. Una sorta di punk blasé senza fronzoli. Un mondo che conosce mille lingue spesso asciutte, senza per questo essere inclini al cinismo. Lingue aspre, a volte, rigorosamente senza orpelli, eppure prive di sobrietà di maniera. Un’indole, questa, che sfuggiva agli affreschi di Pasolini, o alle commedie tragiche di Nanni Loy, per esempio, ambedue irrimediabilmente attratti da ciò che la città aveva di immobile. Immobile, e per questo del tutto anacronistico rispetto alla Napoli subalterna, periurbana e metropolitana di «Le occasioni di Rosa», per esempio. Qui, Salvatore Piscicelli seppe cogliere la realtà del suo tempo. Ridisegnò il confine tra ciò che può essere rappresentato e ciò che per sua natura vi si sottrae. Lasciò intendere con discrezione il futuro della Napoli di allora. Un futuro che somiglia, non a caso, al presente della Napoli di oggi. Una Napoli che il monopolio spacciato per dualismo non associa più alla staticità, bensì a un dinamismo tumultuoso o apocalittico. E proprio rispetto a questa idea egemone di dinamismo, spicca un film documentario nuovo, anacronistico e attuale: «Aperti al pubblico». Prodotto a Ponticelli, acclamato vincitore al Festival dei Popoli di Firenze, realizzato da giovani e talentuose donne. Giornate trascorse negli uffici kafkiani dell’Istituto autonomo per le case popolari. In via Chiatamone, ossia il negativo fotografico del lungomare. Violenta ed esilarante burocrazia al neon, sui volti solcati da un quotidiano sospeso ed esiziale. Per il diritto all’abitare. Oggi, a distanza minima e siderale dalla città rivoluzionaria di Gomorra, dove, come scrisse qualcuno, «tu ti perdi nel paradiso interiore, e anche la tua pietà gli è nemica».