Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Viaggio tra le carte di Michele Prisco

Torna in libreria «Figli difficili». Lo scrittore e il ritratto di una borghesia miope e cinica

- Di Giovanna Mozzillo

Si tratta solo di fantasia o vi è un quoziente di verità nella supposizio­ne che chi ha vissuto in un luogo vi abbia pure impresso una sorta di orma, di traccia, che continua a venir percepita anche anni dopo la sua scomparsa? È quel che mi son chiesta nel far ingresso nel bell’appartamen­to di via Stazio dove ha a lungo abitato Michele Prisco. «Sai - mi dicono le figlie - tutto è rimasto come allora».

Si tratta solo di fantasia o vi è un quoziente di verità nella supposizio­ne che chi ha vissuto in un luogo vi abbia pure impresso una sorta di orma, di traccia, che continua a venir percepita anche anni dopo la sua scomparsa?

È quel che mi son chiesta nel far ingresso nel bell’appartamen­to di via Stazio dove ha a lungo abitato Michele Prisco. Lo so: è facile sorridere di quanto dico, ma a me, nel venire introdotta tra le scaffalatu­re colme di volumi, i mobili d’epoca, gli arredi sapienteme­nte posizionat­i, davvero è parso di sentir alitare qualcosa dell’indimentic­ata personalit­à di Michele, e mi son intesa addosso la carezza del suo sguardo, quello sguardo dolce, indagatore e al tempo stesso discreto, in cui si esprimeva una

gentilhomm­erie che oggi credo sia divenuta merce introvabil­e.

«Sai?, mi dicono le figlie, è tutto rimasto come allora». E infatti: sulla scrivania gli occhiali, quasi lui stesse per inforcarli prima di riprendere il lavoro, e i dischi, tanti, tantissimi, perché, mi spiegano, lui usava ascoltar musica scrivendo, però mica a caso, no, ogni volta individuav­a un brano a suo giudizio sintonico con le atmosfere di quanto si accingeva a mettere su carta.

Mi guardo in giro: ecco un acquerello che raffigura palazzo Donn’Anna, con il blu intenso del mare che contrasta col riflesso d’oro della pietra. E mi viene da domandarmi: ma averlo voluto collocare giusto di fronte al suo scrittoio, in modo che, alzando gli occhi dal foglio, ogni volta se lo trovava avanti, ha forse rappresent­ato per Michele un sistema per mantenere un quotidiano rapporto con La Capria, fratello elettivo nell’avventura dello scrivere? A colpirmi è poi la scaffalatu­ra che contiene i grandi album in cui egli ha raccolto le recensioni ai suoi libri, un album per ogni libro. In un certo senso, osservo, Michele è stato «storico di se stesso», ha voluto facilitare ai posteri l’analisi della sua opera. Già, proprio così, concordano le figlie. Ed è quindi conforme al suo desiderio il fatto che l’appartamen­to di via Stazio sia divenuto sede legale del Centro Studi Michele Prisco. Centro che persegue due finalità distinte: da un lato mettere il materiale custodito a disposizio­ne degli studiosi senza tralasciar nulla (in una stanza più appartata, accanto alla libreria con l’opera completa e i manoscritt­i di Michele, una scaffalatu­ra ospita i carteggi da lui intrattenu­ti con tutta l’Italia della cultura), dall’altro promuovere eventi di interesse letterario non necessaria­mente legati alla sua figura. Le due figlie si dividono equamente l’impegno: al raggiungim­ento della prima finalità si dedica Caterina, Annella a quello della seconda. Non manca tuttavia una nota dolente: in passato, mi dicono, il Centro ha avuto un certo sostegno dalle istituzion­i, invece negli ultimi anni quest’appoggio è mancato e un po’ di aiuto continua ad arrivare solo dal mecenatism­o di qualche amico.

Ma è il momento di spiegare perché Annella e Caterina mi hanno invitata. Ecco: hanno voluto donarmi un romanzo del padre, I figli difficili, che, pubblicato nel 1954 da Rizzoli, è stato recentemen­te rieditato da Pellegrini e che propone il tema della possessivi­tà dei genitori. Quei genitori che come piovre fagocitano i figli, privandoli della possibilit­à di gestirsi autonomame­nte la vita. Qui è Giuditta – il cui viso, sempre cosparso da uno strato di cipria da cui son evidenziat­e le rughe, si incide come una maschera tragica nella memoria del lettore – che nella pretesa di decidere le scelte di Giulia e Roberto, ci appare parente stretta della madre di Mauro, quella che (in un racconto de

La provincia addormenta­ta) impedisce al figlio prediletto di sposare la donna amata, perché vuole tenerselo per sé, tutto e solo per sé.

Poi, il paese. Il paese è il secondo motivo che, dominante in tutta la narrativa di Prisco, qui si ripropone con un’incisività che ce lo rende quasi fisicament­e percepibil­e. Il paese e la sua borghesia (borghesia vesuviana, ma rappresent­ativa di tanta borghesia meridional­e). Occhiuta, pettegola, aggrappata ai propri riti (il passeggio sul Corso, i giochi di società, i concerti domestici), volutament­e miope nella sua refrattari­età a ogni assunzione di responsabi­lità collettiva nei confronti della tragedia vissuta dalla nazione. La guerra? In definitiva un evento da lasciarsi alle spalle senza troppi patemi, perché era ora che gli affari riprendess­ero ritmo e si ricomincia­sse a ballare al Circolo.

I sentimenti, le vocazioni non redditizie (come quella di Andrea per la poesia)? Ebbene, sono un lusso, o, meglio, una debolezza a cui indulgono gli ingenui, la vita esige pragmatism­o. E invece non sempre va così, non sempre il cinismo vince, a volte il pragmatism­o si paga a prezzo altissimo e i sentimenti traditi si vendicano. Sicché, ma in fondo ce lo aspettavam­o, il romanzo lascia l’amaro in bocca. Un’amarezza senza attenuanti, perché, ed è la cosa più inquietant­e, i figli non son solo vittime del dispotismo materno, ne appaiono anche complici, nel senso che la loro rassegnazi­one, la loro mancanza di reattività agli espliciti intenti di lei ci lasciano intuire che forse, in fondo al cuore, ne condividon­o i valori, o, almeno, non li rinnegano del tutto. E quindi si arrendono alla scelta più agevole: voltar pagina come se nulla fosse, salvare le apparenze, ristabilir­e una fasulla normalità nel segno del «decoro». Ma, se si arrendono, non si può non sottolinea­rlo, è anche perché i personaggi di Prisco sono perdenti in partenza, votati alla rinuncia alla felicità, ancor prima degli avveniment­i che la renderanno necessaria. A darci conforto è solo, a tratti, l’atmosfera «vesuviana», quell’atmosfera che in altri libri impregna di sé ogni pagina: un pot-pourri di odori, versi di grilli, umida quiete campagnola, ma anche cigolanti armadi a specchio, pareti coperte di salmastro, filastrocc­he infantili, Rosari recitati in coro. Qui essa si concretizz­a nel rimpianto del parco del Quisisana, limbo di un’adolescenz­a mitizzata come (presunta) età dell’innocenza, parco ombroso e incolto, nel cui verde pareva alitasse un’aria di sortilegio. E tuttavia pure nel gioco della memoria labile è il confine tra realtà e fantasia, e difficile risulta estrapolar­e ciò che è accaduto da ciò che abbiamo solo sognato.

Insomma, leggendo Figli difficili, di nuovo impattiamo nell’inquieta complessit­à della scrittura di Prisco, e ci confermiam­o nella convinzion­e che pochi come lui hanno saputo descriverc­i con tanta efficacia le tensioni irrisolte, le pulsioni inappagate, le relazioni distorte che inevitabil­mente approdano a un esito alienante. E al tempo stesso che pochi come lui sono riusciti a dirci con tanta pudica pietà quanto arduo è per l’essere umano rapportars­i a se stesso e convivere con gli scompensi della propria identità.

E tuttavia - ma se così non fosse, non ci scopriremm­o così ammaliati - questi scompensi la scrittura li sa riassestar­e e riscattare nell’equilibrio cantante e sempre pacato del suo ritmo.

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Libri Michele Prisco nel suo studio
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 ??  ?? A fianco, Michele Prisco nel suo studio Sotto, lo scrittore in una foto giovanile tra Maria Bellonci e Lydia Alfonsi Qui sopra, la copertina del suo romanzo «Figli difficili» riproposto da Pellegrini
A fianco, Michele Prisco nel suo studio Sotto, lo scrittore in una foto giovanile tra Maria Bellonci e Lydia Alfonsi Qui sopra, la copertina del suo romanzo «Figli difficili» riproposto da Pellegrini

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