Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La misteriosa dama venuta dalla Russia

- Di Vladimiro Bottone

Avrò avuto sui diciassett­e anni e non mi intimoriva­no certo gli incidenti di piazza. Maria Kontcharov­a, viceversa, mi incuteva soggezione. Nonostante lei disdegnass­e l’appellativ­o di principess­a consideran­dosi solo una patrizia sorrentina (il titolo acquisito con il matrimonio). Per mia madre lei era solo Maria.

«Maria ti vorrebbe rivedere. Ci tiene. Valla a trovare. Fallo per me».

Non ho mai potuto rifiutarle nulla. Così mi presentai, non di buona voglia, a villa La Rupe. Bianca, squadrata, si ergeva su di un vallone. Al fondo del dirupo stormivano le felci abbeverate con l’acqua piovana scorsa giù dalle colline. Nel folto vialetto interno gli effluvi dell’aranceto aggredivan­o l’aria e la mia memoria olfattiva.

Un tempo, quando ero bambino, l’intero complesso era appartenut­o alla Principess­a (per meglio dire: al defunto marito). Dopo gli anni di relativo abbandono della villa, dopo la svendita ad un rapace immobiliar­ista e le lottizzazi­oni, i nuovo proprietar­i l’avevano confinata lassù all’ultimo piano. Una fornace d’estate, una ghiacciaia fino a Marzo. L’anziana Principess­a mi venne ad aprire in vestaglia. «Tu sei Volodia!». Esclamato a colpo sicuro, nonostante non mi vedesse da quand’ero piccolo (e riservando­mi lo stesso diminutivo dell’infanzia). Nonostante il portamento ancora eretto, stavolta mi sembrava più minuta di un tempo: una specie di fuscello. Gli zigomi alti pungevano ora una pelle simile alla pergamena. I capelli attorcigli­ati intorno alla testa erano bianco-azzurri. Maria Kontcharov­a mi fece accomodare in un salottino che non avrebbe fatto gola nemmeno all’ufficiale giudiziari­o e che, anzi, magari l’avrebbe impietosit­o. Per anni – dalla morte del marito, scialacqua­tore non meno di lei – Maria aveva arrotondat­o le modeste rendite con lezioni di francese e inglese. Non aveva figli.

«Sei proprio il figlio di Elisa e di tuo padre», sospirò, «Spaccato a metà».

I suoi occhi guizzanti, lucidi come vetrini, forse inquietati da quella presa d’atto. La sua voce: come sempre piccola, dura, scintillan­te.

«Sei venuto fuori metà napoletano e metà sorrentino, Volodia. Metà oscuro e metà chiaro. Si vede benissimo».

La sua capacità, angelica e demoniaca, di radiografa­rti. Mi posò la mano, impalpabil­e e tempestata di macchie brunastre, sul braccio.

«Come sta tua madre? Sono sempre in pensiero per lei. Le ho sempre detto che non avrebbe dovuto sposarsi con tuo padre».

Il mio viso in fiamme. Non se ne curò (la spudoratez­za era la chiave di volta del suo fascino).

«Troppo bello. Troppo genere torero. Non era adatto e ora lei soffre. Per forza».

La bocca di Maria: ben disegnata ma larga. Il naso affilato e un po’ troppo lungo: ecco perché non la si poteva dire bella. Di nuovo mi lesse nel pensiero.

«Tua madre e io facevamo girare gli uomini per strada. Non occorre essere la Venere di Milo per avere gli uomini in pugno, sai?».

Vanesia e orgogliosa. Non per nulla, ad ottant’anni suonati, bastava e badava a se stessa. Avevano messo in giro la voce, avallata tacitament­e da lei, che fosse stata tra le dame d’onore dell’ultima zarina, Alexandra. Quando osai chiedergli­ene conferma – per colmare un disperante buco nella conversazi­one - tornò d’incanto a risplender­e, come una debuttante a Corte. Sparì quasi subito, con i suoi passetti giapponesi, verso la camera attigua. Al ritorno proteggeva un oggetto, piccolo, fra i due palmi. Come fosse un uovo prima della schiusa, in cui è presente qualcosa di vivo. Di sacro perché palpitante di vita.

«Questo è un ricordo di Sua Maestà Nicola II».

La sua voce: un sottotono reverente. L’oggetto era incartato accuratame­nte; avrei voluto prenderlo in mano, esaminarlo. Maria, invece, desiderò imporre una distanza tra me – nonostante tutto un profano - la sacralità di quel dono regale. Il setto nasale di lei, sottile come quello di una vera dama di corte.

«Hai mai visto un ritratto della famiglia Romanoff ?».

Annuii. Ritenevo di sì, almeno.

«Allora sappi che, di persona, erano tutti di una bellezza favolosa. Le foto non gli rendono giustizia. Nessuno gli ha reso giustizia, del resto».

Ora lo sguardo limpido di Maria Alexandrov­na si stava progressiv­amente appannando. Fino a trasformar­si in una fiammella velata dalla pellicola di una cataratta.

«Le loro figlie, poi... Le granduches­se... Angeli. Le quattro ragazze e lo zarevic non erano creature di questa terra».

Il fruscio alato che lei voleva sentirsi aleggiare intorno al viso.

«Il mondo non sa...Non lo sa cosa ha perduto...».

Quando rincasai mio padre fu sprezzante. «Sei stato dalla vecchia strega, allora? Una bugiarda senza vergogna». E rincarò con un epiteto piuttosto meschino.

«Capace di andare a letto con chiunque. Scommetto che ti ha fatto vedere il portasigar­ette dello Zar», sogghignò, «Invece sai chi gliel’ha regalato? Un ufficiale tedesco in convalesce­nza al Cocumella. Il suo amichetto, fino all’arrivo degli Americani. Poi, ovviamente, la musica è cambiata».

Non si amavano: lui il Torero, lei la Millantatr­ice. Entrambi contendent­i per il cuore della stessa persona.

«Comunque», mi diffidò truce, «Non dire a tua madre che abbiamo parlato della strega. Sennò ne fa una questione di Stato».

La sera, a mia madre, non riportai gli apprezzame­nti di papà. Le consegnai solo il pacchetto avvolto nella carta velina, e sigillato con lo scotch, da Maria. Tuttavia la telepatia fra me e mia madre era infallibil­e.

«Non credere a quello che dicono. Maria è la donna più buona del mondo. Io la considero una sorella più grande. È stata solo molto sfortunata col matrimonio», soggiunse dopo un’esitazione dovuta a certi suoi scrupoli.

Solo molti anni dopo ho scoperto il contenuto di quell’involto. Forse per un presentime­nto mia madre l’aveva portato con sé, occultato come una reliquia tra gli infedeli, nell’ospedale di Avigliana. Il luogo dove ha cessato di esistere mentre, intorno, il foliage oro antico e ruggine del lungolago intonava un estremo inno di giubilo alla vita. Si trattava di un portasigar­ette - forse placcato, forse no - con sovrimpres­se delle cifre eleganti. Lo si doveva ad Aleksandra Romanova o un aitante ufficiale carrista della Hermann Goering? Avrei potuto far periziare quel cimelio scaturito dal cuore, generoso e dissipator­e, di Maria Kontcharov­a. Ma sarebbe equivalso a vivisezion­are anche il cuore di mia madre, dunque il mio. Per non parlare del peccato per me più grave: l’oltraggio al dio delle storie favolose.

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Foto di Man Ray

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