Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Anfore di terracotta per affinare il vino

Cerignola, così Biancardi ha puntato tutto sulla qualità

- di Monica Caradonna

Carmine si pulisce il viso. Prova a togliere un po’ di polvere dagli occhi. Poi prende una sigaretta, l’accende, fa un tiro profondo, osserva il disastro intorno a sé e laconico commenta «quel soffitto dovremmo ricostruir­lo in legno». Era maggio e faceva caldo, era il 2010 e Michele Biancardi, figlio di quel Carmine, aveva deciso di dare forma alla sua più grande sfida, riconverti­re l’azienda agricola di famiglia e impiantare vigneti in quei 100 ettari vocati a ortaggi, frutta e cereali. Quel giorno gli operai erano sul cantiere quando Michele è riuscito a scorgere un raggio di sole attraverso il soffitto di tufo nella masseria che dagli inizi del ‘900 è di proprietà della sua famiglia. Giusto il tempo di urlare. L’operario fermo fuori nel parcheggio in un attimo ha pensato che fossero tutti morti. «Quell’anno il sogno che stava per cominciare ha rischiato di frantumars­i» ricorda Michele. E invece no, perché lui, agronomo, con un master in viticoltur­a ed enologia, doveva compiere ancora la sua seconda grande sfida, ovvero produrre un grande vino in una terra vocata a mosti muti e belle di Cerignola. Oggi l’azienda Michele Biancardi vini, chiamata così in ricordo di un nonno mai conosciuto e nel pieno rispetto di una tradizione che da cinque generazion­e vede avvicendar­si un Michele a un Carmine, produce poco più di 50mila bottiglie di vino tra Primitivo, che è stato adattato al loro terreno, calcareo, bianco, molto sciolto, Fiano Minutolo e sua maestà il Nero di Troia.

«Volevo mettere in bottiglia un grande vino – racconta Michele Biancardi – e dimostrare che si può fare qualità facendo un lavoro accurato in vigna, partendo dalla selezione dei grappoli, dalla potatura verde, fino al diradament­o dell’uva. Si noi buttiamo l’uva a terra». E la novità nel tavoliere che strizza l’occhio al mosto muto, sono i vini affinati in anfora. Dei nove ettari di vigna, immediatam­ente adiacenti alla cantina per evitare che passi troppo tempo dalla raccolta alla pigiatura, c’è una piccola selezione di uve Nero di Troia che subisce un appassimen­to in pianta – anche se i Biancardi stanno costruendo una sala apposita – per poi essere affinate in un’anfora in terracotta. Milleceppi, questa l’etichetta del rosso ottenuto da una piccolissi­ma selezione in campo che non supera i 60 quintali di uva con una resa decisament­e bassa e che danno non più di 4mila bottiglie. È la miglior selezione, vendemmiat­a un mese dopo la dead line di raccolta del Nero di Troia, arrivando anche a iniziare le operazioni intorno alla metà di ottobre.

La fermentazi­one avviene in acciaio, mentre l’affinament­o in anfore di terracotta da 500 litri per circa un anno. «Utilizziam­o anfore pulite – spiega Michele Biancardi – che non sono rivestite da cera o che sono vetrificat­e; in questo modo il vino è in contatto diretto con la terracotta; questo determina un passaggio dell’ossigeno come per il legno e fa evolvere in positivo il vino, ma non c’è la cessione delle note tipiche del legno, lasciando inalterati i profumi del vitigno, con una tendenza al sentore di humus». Dopo un anno che il vino riposa nelle anfore l’imbottigli­amento avviene senza filtrazion­e lasciando il pregiato nettare il più naturale possibile. Sfida vinta, ma Michele non si accontenta e continua la sua vita in campagna seguendo le variazioni del sole e non c’è sabato e né domenica.

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In alto l’antica masseria ristruttur­ata, nella foto piccola Michele Biancardi

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