Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Io, da Capodichino a Santa Lucia Sei chilometri a piedi nell’inferno
Un’ora sotto la pioggia tra bus che non passano e subway in crisi
Ore 8:45. Lungo Calata Capodichino ci sono cinque fermate, la mia non ha display, né una pensilina sotto cui ripararsi, e in effetti oggi piove. Le fogne sono esplose, i soliti ruscelletti giallognoli scorrono a bordo strada e c’è traffico. I guaglioni dei bar trasportano stoicamente vassoi colmi di caffè. Come ogni giorno il commerciante di abiti da lavoro tira fuori la mercanzia e di colpo il grigiore della mattinata è squarciato da una divisa da «chef Babbo Natale», come recita il cartello. Un anziano mi chiede se ho visto passare un 184 o un R5, gli faccio cenno di no, poi preso dallo scrupolo gli ricordo che vanno in due direzioni diverse, lui mi guarda e mi risponde che non gli importa, l’uno vale l’altro. In effetti, il suo ragionamento non suona incomprensibile a chi abita da queste parti. L’importante è riuscire a muoversi, ad avviare la giornata dalle colonne d’Ercole in cui siamo stati confinati. Ma oggi non è giornata, come non è giornata mai. Gli faccio un cenno di saluto e mi avvio sotto la pioggia.
Ore 9
Piazza Carlo III è la piazza dell’indecisione. Meglio aspettare qui il bus o recarsi alla fermata successiva col rischio di finire nella terra di mezzo e perderlo? Questa è la linea Maginot di certe giornate, ogni scelta potrebbe rivelarsi decisiva. Come sempre il traffico è paralizzato, i semafori sono spenti e, in effetti, la tattica dell’autogoverno sembra dimostrarsi più efficace di quella del governo, almeno da parte dei vigili. Quando ci sono loro, al crocicchio tra via Foria e corso Garibaldi, bruciare vivi all’inferno appare per molti versi una prospettiva di gran lunga migliore. Per quanto mi riguarda, oggi ho deciso di filare via verso la metro, quindi muovo lungo via Arenaccia nella speranza di prendere il primo bus al volo. Ma non succede, non succederà. Anzi, vi faccio uno spoiler. Fino alla fine di questa storia non ne passerà nemmeno uno. Piove più forte adesso.
Ore 9:08
Dall’altoparlante della stazione Garibaldi esce un annuncio: non sono buone notizie. Ai tornelli c’è un fronte di gente accalcata. Qualcuno bestemmia, qualcun altro fa il solito commento: «Cose da terzo mondo».
Mi rivolgo a un dipendente dell’azienda di trasporto pubblico. È giovane, ha più o meno la mia età. Mi dice che la metropolitana è chiusa per un guasto. Fino a piazza Dante, aggiunge. Ma a me non serve prendere la metro a piazza Dante, gli rispondo. E lui: e io cosa posso farci, fratammé. A parte l’improvvisa fratellanza, che un po’ mi sorprende, reagisco alla ferale notizia con sostanziale dignità e lesto, insieme alla mandria, mi avvio verso l’uscita. Diamo così per scontato il disservizio che nemmeno ci lamentiamo più. Arriveremo in tempo a lavoro, all’università, al nostro appuntamento? Ovviamente no, eppure a chi importa? Ormai i capi lo sanno, lo sanno i professori e tutti quelli con cui abbiamo un appuntamento. Anzi. Anche loro, con ogni probabilità, faranno tardi per le stesse ragioni.
Ore 9:20
Sul rettifilo non passa nemmeno uno straccio di R2 affollato. Continua a piovere. All’altezza di piazza Nicola Amore l’eterno cantiere della metro ci obbliga a fare un lungo giro prima di poter riprendere la direttrice principale. Una scolaresca occupa tutto il marciapiede, fa casino, prende in giro i passanti. I ragazzi fiutano l’iperventilazione come i cani con la paura. Beata gioventù, mi dico, poi penso che molti di loro non erano nemmeno nati prima che questa piazza si trasformasse in un cantiere-monumento. Sono le 9:30. I cancelli della metro Università sono sbarrati.
9:45
Ascensore Acton. Ho superato piazza Municipio come si poteva, tra il cantiere dei lavori in corso e il traffico esibendomi nel più classico degli attraversamenti partenopei, cioè in diagonale. Ho incrociato le dita e mi sono lanciato, confidando sulla bontà dei miei concittadini. Nessuno mi ha investito, mi ritengo fortunato. Le porte dell’ascensore Acton ci impiegano un’eternità a chiudersi, quando infine si spalancano in superficie sento che ormai ce l’ho fatta: il borgo di Santa Lucia è lì, sotto i miei piedi piagati dal cammino. Su Google maps calcolo la distanza: ho percorso 5,8 km in un’ora e un quarto. Niente male. Alzo lo sguardo, ecco il guaglione del bar dove prendo il caffè ogni giorno camminare sotto la pioggia col suo vassoio. Non devo avere una buona cera, perché a un certo punto si avvicina e mi chiede se va tutto bene. Tutto a posto, gli rispondo. Oggi è Santa Lucia, mi dice, e io ne sono devoto. Ah davvero, gli faccio ormai allo stremo delle forze, non solo ci vivi e ci lavori, ma ci sei anche devoto. Un altro sorriso, poi il guaglione si dilegua svelto nel palazzo della Regione col vassoio pieno di caffè, cornetti caldi e acqua frizzante.
In giornate come queste, mi dico, sarebbe proprio il caso di votarsi a qualche santo. Non ho nemmeno il tempo di finire il pensiero, ecco il guaglione tornare indietro e senza farsi notare allungarmi un caffè. «Tieni», mi sussurra, «non dire a nessuno che te l’ho dato. Facciamo che è stata Santa Lucia a mandartelo».