Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il buon senso dell’equo compenso
Oggi all’Istituto italiano di Studi filosofici una riflessione fra tutti gli ordini professionali
Non è vero che la normativa comunitaria vieta i minimi tariffari Occorre rifiutare il concetto di lavoro come merce Esso porta dignità
Oggi pomeriggio alle 17,30, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, l’associazione E-Laborazione, presieduta da Dino Falconio, organizza l’incontro dal titolo «Il buon senso dell’equo compenso nel lavoro libero-professionale». È prevista la partecipazione di Guglielmo Epifani, presidente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati. Il professor Enrico Minervini, ordinario di Diritto Civile del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, con una “Lectio brevis” introdurrà il dibattito al quale prenderanno parte i rappresentanti degli ordini professionali aderenti al Cup, co-promotore dell’iniziativa.
Sono circa 180.000 i professionisti di Napoli e provincia, cioè quasi il 7,3% del totale nazionale degli iscritti a ordini e collegi professionali e circa il 6% degli abitanti della Città Metropolitana Partenopea. Questi dati di fonte CUP (Comitato Unitario delle Professioni) indicano quale incidenza possa avere sul nostro territorio la recente normativa dell’«equo compenso», che offre grandi temi di discussione finora elusi dal dibattito politico.
Dopo l’abolizione delle tariffe professionali al grido crociato-liberalizzatore di «L’Europa lo vuole» finalmente si registra una inversione di tendenza e si prende atto di ciò che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea afferma da tempo: non è vero che la normativa comunitaria vieta i minimi tariffari.
C’è un «totem» della libera concorrenza che genera l’«ipertrofia influenzale» dell’Autorità Antitrust nella formazione delle leggi. I trattati europei (sorti dopo la caduta del muro di Berlino con Maaedulcorata stricht e confermati con Lisbona in pieno clima neoliberista e comunque prima della Grande Crisi dei Subprime del 2007) sono di fatto sbilanciati su un concetto esasperato di Libero Mercato a scapito dell’idea di leggi che governano gli scambi economici secondo interessi più generali (come la libertà intesa come promozione della personalità umana). Ma quando si avvierà una riflessione seria sull’esuberanza delle varie Authorities in termini di legittimità costituzionale? Quando ci si preoccuperà di lottare contro i veri abusi di posizione dominante, che sono abusi di potere?
Il tema poi si allarga al rapporto fra storture della «globalizzazione» ed «esternalità positive» del modello sociale europeo. È lo stesso terreno di confronto che riguarda il Welfare State e che trova qui una sua ulteriore declinazione: quale è la relazione fra liberalizzazioni e privatizzazioni?
Da una parte svendiamo rami di Stato Sociale ai grandi investitori e dall’altra asserviamo quote di fatturato del lavoro libero-professionale alle multinazionali. Il tutto mentre cade nel dimenticatoio il principio di «tipicità» degli ordinamenti socio-giuridici del trattato di Lisbona, che rappresenta un architrave della resilienza all’omologazione.
Non ultima nasce dall’equo compenso un’altra riflessione che si ricollega al dibattito sul lavoro in senso ampio, fuori dell’ormai arcaica dicotomia fra dipendente e autonomo. Occorre rifiutare il concetto di «lavoro come merce» al quale è tanto affezionato il neo-liberismo di qualunque maschera, o selvaggia, si travesta.
Il lavoro non può soggiacere alla sola regola della domanda e dell’offerta perché esso ha la funzione di realizzare la dignità umana. La dottrina neo-capitalista della massimizzazione del profitto passa per il massimo ribasso di tutti i «costi del lavoro», dai contributi assicurativi e previdenziali ai compensi professionali. La remunerazione proporzionale alla qualità e quantità del lavoro svolto, invece, non è solo un parametro economico, ma è collegata all’esistenza (non a caso) «libera e dignitosa» proclamata dall’art. 36 della Costituzione.
Parlare di «buon senso dell’equo compenso» perciò va molto oltre la garanzia di qualità della prestazione nei confronti dei committenti, i cui standard devono essere assicurati a tutti, poveri e ricchi, grazie all’indipendenza del professionista. E la Politica deve riconoscere e valorizzare il patrimonio di esperienza e conoscenza del «professionalismo» di stampo europeo e italiano.