Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dialogo tra de Giovanni e Cairo Le opposte passioni di due tifosi
Il dialogo tra lo scrittore e il presidente del Torino
Un consiglio: se fate il tifo per una squadra, ma proprio tanto, quel tifo che ti fa stare male se i tuoi non vincono, evitate di intervistare il presidente della squadra avversaria il giorno prima del match. Correrete, in quel caso, una serie di gravi rischi. Urbano Cairo è un imprenditore ai massimi livelli diverso da quello che si immagina debba essere un imprenditore ai massimi livelli.
Per carità, dedizione al lavoro, lucidità, visionarietà sono quelle che ci si aspetta; unite a una fortissima determinazione, a una innata capacità di fare squadra eccetera, sentendolo parlare del modo in cui affronta gli ostacoli e li supera si capisce il motivo di fondo per cui si ritrova dov’è e si prevede pure l’ulteriore importante tragitto che con molta probabilità compirà con le sue aziende.
La differenza sta nella passione. La passione è l’argomento che mettiamo subito al centro della conversazione, e il tifoso che lo incontra testa l’imprenditore sulla questione più importante. Perché il tifoso di passione vive, e se diffidenza ha nei confronti del massimo dirigente di una squadra è nell’eccessiva zavorra della razionalità economica che ne limita l’azione. Qui invece la passione non solo c’è, e in quantità anche molto rilevante, ma per Cairo è alla base di tutto: l’elemento di accensione, quella che ti fa fare le ore piccole se sei dentro un progetto e che ti butta giù dal letto assai presto, la mattina dopo. Una passione che è fuoco, e anche fedeltà a un’idea: una febbre che produce la necessità del coinvolgimento altrui, perché non serve a niente arrivare alla fine, al raggiungimento di un risultato se non lo si condivide con gli altri.
Qui non siamo di fronte a un uomo solo al comando: questo è il bomber che motiva i compagni, tirando fuori il meglio da ciascuno.
E qui insorge il primo rischio per il tifoso conversatore, la consapevolezza che è una vera rogna giocare contro una squadra che riferisce a un presidente così. Perché il sorriso coinvolgente e caldo di questo appassionato presidente è un bel motore nella macchina dell’avversario.
Urbano Cairo prende il Toro, racconta, sulla base di una passione sì, ma non personale. E’ una storia bellissima, quella del tifo della madre che dopo il fallimento della propria squadra del cuore e considerata la possibilità del figlio di acquistarla lo invita a farlo. Dobbiamo confessare che di fronte a questo dignitoso, discreto accenno alla famiglia ci siamo sentiti coinvolti. Il tifo, abbiamo sempre pensato, ha una radice genetica, una modalità genitoriale di trasmissione. Per Cairo è andata così, un piccolo immenso regalo alla madre, una rosa portata a una signora che, non dubitiamo, ha avuto lo stesso sorriso del figlio. Il Toro diventa di Cairo per trasmissione familiare, come deve essere per ogni passione; ma è anche un’impresa, che in dodici anni ha avuto dolorosi momenti e magnifiche esaltazioni.
Il secondo rischio per il tifoso: ritrovare la propria stessa storia in quella dell’avversario, che quindi ti diventa all’improvviso fratello.
La risalita dalle nebbie del fallimento, il dolore di vedersi su campi infimi contro avversari degni ma di categorie impraticabili, gli investimenti nuovi e a volte frettolosi, dettati dalla voglia di riemergere presto e quindi sbagliati, nuovi investimenti più equilibrati e razionali. Il tempo che ci vuole, contro l’urgenza di competere di nuovo ai livelli che la storia impone. Il proprietario che studia da presidente, che sceglie le persone giuste alle quali delegare la sua stessa passione per cominciare a pianificare.
Il terzo rischio che corre il tifoso è trovarsi di fronte a un mix perfetto di razionalità e innamoramento: per diventare competitivi bisogna punta- re sui giovani. Bambini ai quali dare un pallone, un campo e una maglietta. Tatuare sul cuore di un ragazzino uno stemma, un simbolo che pulsi con forza e pompi liquido caldo nelle vene, che diventi un senso del sacrificio e una direzione delle speranze. Comprenderete che a quel punto pensare di rivaleggiare con chi ha un così vicino senso dell’identità diventi davvero coml’imprenditore plicato.
Perché il granata funziona esattamente come il nostro azzurro: è un’identità. Un senso di appartenenza assoluta, di legame a una terra e a un’aria. E’ il riconoscimento di una storia antica e di un presente in salita, che non ha bisogno di vittorie per alimentarsi perché è la consapevolezza di sé stessi l’unica vittoria che ci serve. Quelli come noi, dice innamorato, devono combattere, e combattere e combattere ancora nel rispetto delle regole e sempre per amore.
E quando chiediamo: che cos’è il Toro, presidente?, sappiamo già quale sarà la risposta. E’ un’idea romantica, dice. Come si fa a non essere d’accordo. E adesso giocaci contro, alla squadra di uno così.
Motivazioni È lui il bomber che motiva i compagni
Fede Granata come azzurro: un’identità