Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Castellucci Ho coperto il volto a Dafoe
«Presento un mio lavoro tratto da un racconto di Hawthorne in cui un pastore si copre il viso e non svela mai il perché»
Per Romeo Castellucci il volto è un luogo politico. È il luogo dell’incontro con l’altro, ma anche dello scontro, della negazione. Qualche anno fa il suo spettacolo «Sul concetto di volto nel figlio di Dio» fu duramente contestato a Parigi e divenne oggetto di polemiche. Da allora il geniale regista romagnolo ha continuato a lavorare sullo stesso tema, oltre che su molto altro, dalla tragedia greca fino alla democrazia americana.
L’esito delle sue riflessioni sul volto va in scena a Napoli in prima nazionale, mercoledì prossimo: «The Minister’s black veil» con Willem Dafoe verrà rappresentato nell’ambito di «Quartieri di vita», seconda edizione del festival di formazione e teatro sociale diretto da Ruggero Cappuccio. Uno spettacolo che si annuncia potente e radicale come è da più di trent’anni il segno di Castellucci. «Non parliamo di spettacolo, però», corregge il regista. «Si tratta di un oggetto un po’ diverso. Meglio dire un’azione, una presenza. Dello spettacolo non ha la forma tradizionale, non c’è la frontalità del palcoscenico».
Anche il luogo della rappresentazione è poco teatrale: siamo a Donnaregina Vecchia, nel museo Diocesano di Napoli.
«Sì, andare in scena in una chiesa, in un luogo religioso è molto coerente con il racconto di Nathaniel Hawthorne da cui il lavoro è tratto. Il testo narra di un pastore che si presenta ai propri parrocchiani con un velo calato sul volto. Ho voluto creare negli spettatori lo stesso tipo di emozione, di sgomento, mettendoli a contatto con il personaggio. Per questo più che di spettacolo parlerei di un taglio, un graffio, un gesto. La presenza magnetica di Dafoe è celata da un velo e non vedremo mai il suo volto».
C’è una continuità dallo spettacolo sul volto del figlio di Dio?
«Senza dubbio. Il volto è appunto il luogo dove ci si espone all’altro. Mi ha influenzato il pensiero di Lèvinas, filosofo che scrive testi di straordinaria bellezza e che parla del volto come luogo dell’aperto. Ecco, qui è il contrario, nascondere il volto mette in crisi lo spazio comune, è una sottrazione all’altro. In più, senza una spiegazione. La novella va avanti e il pastore non toglie il velo, anche quando sta da solo, fino alla morte. Cosa significa? È un gesto mistico? Riproduce quello di Mosè che si vela davanti a Dio per rispetto ma anche per proteggersi perché chi vede Dio muore? Oppure è una scelta di altissima blasfemia, una dichiarazione dell’inesistenza di Dio? Questo è un tratto molto moderno di Hawthorne che non ci dà nessuna spiegazione. Ci mostra solo il collasso della comunità di fronte al gesto del pastore e questo ci conduce a una critica radicale del nostro rapporto con le immagini, ormai bulimico e patologico».
Come si è trovato Dafoe con un velo davanti al viso?
«È stato straordinario, non si è sot- tratto ai limiti che gli ho imposto. Ha dovuto rinunciare alla mimica. Quel velo significa anche togliersi la maschera della faccia, e dietro la faccia siamo tutti più sinceri, siamo nulla».
Come sta cambiando la sua poetica? È ritornato a un uso più pieno della parola?
«Sono per natura una persona confusa e non ho metodo, mi interessano moltissime cose anche se l’eclettismo è a volte pericoloso per un artista. Detto ciò, è vero che la parola mi interessa moltissimo ma mai come semplice trasposizione di un testo in scena. Il teatro non è un’illustrazione. Il compito del regista è quello di cogliere l’idiosincrasia tra libro e carne dell’attore e ripensare questo rapporto. Anche in questo caso, il punto non è il contenuto dell’azione ma la risposta a una domanda più semplice: perché siamo qui? Cosa stiamo facendo in questo luogo?».
Lei è stato a Napoli anche di recente, un paio di anni fa, all’Asilo Filangieri. E l’editore napoletano Cronopio ha pubblicato il saggio a più voci «Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci». I suoi legami con la città sono forti? «Adoro Napoli e vengo qui troppo di rado per i miei gusti. Questa potrebbe essere la città dalla quale si ripensa il teatro in una dimensione contemporanea».
Facendo i conti con il peso della tradizione? «Non solo i napoletani ma tutti noi italiani siamo sovraccarichi del peso della tradizione, della nostra cultura latina e cattolica. Ma è un punto di partenza per il confronto con l’oggi».
Lei ha anche avuto esperienze di direzione alla Biennale e ad Avignone. Come dev’essere secondo lei un festival teatrale?
«Deve essere un momento eccezionale, non si può confondere con una stagione, e deve avere un carattere necessariamente internazionale. Poi bisogna che abbia un’apertura ai giovanissimi, con tutti i rischi che questo comporta in termini di sbigliettamento. Al Festival napoletano vengo ora per la prima volta, ma conosco alcune realtà che sono la linfa vitale in Italia come Santarcangelo e il Festival delle colline torinesi. Incredibile, poi, che a Milano non ci sia un festival o una sala con una programmazione internazionale».
Lei abita a Milano per lunghi periodi?
«No, vivo in un borgo vicino Cesena, ma più di tutto la mia casa è la mia valigia, che mi porta sempre più spesso fuori dell’Italia».
L’adoro e vengo qui troppo di rado per i miei gusti Questa potrebbe essere la città dalla quale si ripensa il teatro in una dimensione contemporanea