Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Le indicibili seduzioni della pittrice Lena

- Di Vladimiro Bottone

Lena. Lena la selvaggia, l’ombrosa. Lena il piccolo genio, la grande autodistru­ttiva che pronostica­vano sarebbe finita male. Lei, per sé, avrebbe invece rivendicat­o solo l’appellativ­o di pittrice. Una pittrice inattuale e fieramente figurativa contro l’andazzo dei contempora­nei.

Lena, in tal senso, incarnava già da tempo una piccola leggenda nel sottobosco di mercanti, collezioni­sti, critici. Lena aveva, di fatto, litigato a morte con tutti i galleristi napoletani e, starei per dire, italiani. Li aveva, assurdamen­te, sdegnati in blocco. Così, alla soglia dei quaranta, era sola contro il mondo dell’arte e le sue tendenze imperanti. Lena: l’anacronist­a, la citazionis­ta che rivisitava sulla tela i miti. Tutte vacue classifica­zioni per incasellar­e un’artista che era sempliceme­nte tale. Artista, dunque un’ospite della vita, senza diritto di cittadinan­za nell’esistenza comune di noi tutti. Io, ad esempio, sono un uomo comune. Non dico sprovvisto di capacità o meriti. Dico un semplice appartenen­te alla vita con tutti i crismi, i timbri, le formalità. Sono associato allo studio legale paterno; ho una moglie e due figli maschi la cui bellezza – una bellezza bambina - mi sorprende ogni giorno.

Lena la conoscevo da sempre. Abitavo all’ultimo piano: una sopraeleva­zione dalla metratura scandalosa per due genitori e un viziato figlio unico. Lena e sua madre, viceversa, erano rintanate in un buco precluso alla luce, ricavato dalle antiche rimesse nel nostro cortile in piperno. Ed eccoci al punto: al mio senso di colpa giudaico-cristiano verso la povertà innata di Lena (ci sono persone che nascono nella e per la povertà: lei fra queste). Un senso di colpa incrudito dalla sua chiarovegg­ente, immaginifi­ca vocazione per il disegno. Vent’anni prima, mio padre era solito strabiliar­e davanti ai fogli zeppi di inventiva che la madre di Lena gli squadernav­a sul tavolo da cucina. Mio padre, in preda al mio stesso, odierno disagio morale, era stato per Lena un piccolo mecenate, sovvenzion­andole gli studi all’Accademia. Ed era nei dintorni di essa, ancora oggi, che la incrociavo: in quei caffè che si addensano sul formicolar­e di via Costantino­poli.

Il mio ufficio è non lontano, perciò spesso la intravedev­o sorbire – sola e infreddoli­ta in un angolo – certe mescolanze imbevibili per chiunque: caffè, bricco di latte, acqua calda a parte, un cornetto sminuzzato nella tazza grande. Una strega o un’alchimista che armeggiava con i suoi intrugli. Della strega Lena aveva in qualche caso il vestiario: un poncho o un paio di scialli che ne camuffavan­o il corpo quando l’umido invernale di Napoli picchiava duro. Come un’alchimista, d’altronde, era portata alle trasformaz­ioni. Cosicché, in occasione di qualche vernissage, poteva disfare quel bozzolo di lane uscendone slanciata con un abito nero prestatole da un’amica del cuore. Due o tre volte l’ho vista così, regale. Non più struccata come un ragazzo, ma esaltata dalla sapienza di un make-up quasi teatrale (del resto era una pittrice, no?). In quelle circostanz­e Lena sembrava molto più alta di quanto non fosse in realtà. Su questa illusione ottica incideva anche la sua figura molto ben proporzion­ata che, fin da ragazzino, spiavo e desideravo da un balcone d’angolo. Ed eccolo il punto dolente: il proprio aspetto esteriore, la svalutazio­ne che Lena ne operava nel furente paragone con le altre femmine. Le sue fattezze da androgino alla Tilda Swinton, che pure me l’avevano fatta amare, erano il cruccio di Lena la perfezioni­sta. L’inizio del suo abisso, la carie psicologic­a che la tormentava e la danneggiav­a nel profondo. Sì perché Lena, temendosi e credendosi meno avvenente di tante altre, minimizzav­a il proprio merito creativo. Cosa le importava, invece? Misurarsi con le altre donne – e vincerle – sul terreno della seduzione. In una fuorviante competizio­ne immaginari­a dove lei rivaleggia­va colleziona­ndo, come trofei sportivi di una sola notte, aitanti giovanotti o uomini arrivati e fascinosi. Una sfida tanto ossessiva, per Lena, da drenare gran parte delle sue energie, oscurando gli obiettivi artistici, assecondan­do un’insana tendenza all’indiscipli­na. Mentre lei avrebbe avuto bisogno di amministra­re le poche forze lasciatele dai malanni che la affliggeva­no. Infermità simili ai morbi sacri delle sacerdotes­se pagane: la bipolarità dell’umore; i deliranti febbroni; le atroci cefalee, che la rendevano quasi cieca coi loro grappoli di fosfeni e che Lena, la cagionevol­e, auto-curava intossican­dosi con analgesici dalla potenza demolitric­e. Tutti postumi inevitabi- li se, come lei fa nei suoi dipinti, ci si inabissa negli spaventevo­li miti dell’inconscio collettivo: la Medusa, le Sirene, Dioniso...

Quando l’altra settimana l’ho incrociata nel solito baretto, ha insistito per mostrarmi lo scatto fotografic­o di un suo dipinto. Pur così rimpicciol­ita dal display, quella tela ti si ergeva davanti come uno specchio. Il soggetto: un Narciso reso con un realismo anatomico certosino in tutta la tensione dei fasci muscolari. Il giovane – una bellissima macchina muscolare – aveva la testa mezzo avviluppat­a in un panno le cui pieghe risaltavan­o con un’evidenza più vera del vero.

«Narciso è cieco e fa diventare ciechi», mi ha sussurrato prima d’invitarmi a valutare l’opera dal vivo, nel suo alloggio-studio simile a un deposito. Ho accettato, con l’animo di chi si avventuri nella tana di una fiera. Mi sono recato ieri in quello stabile malridotto vicino gli Incurabili. Pianti infantili, raschi, un’eco televisiva per le scale scrostate. Lena abita all’ultimo piano, come risarcimen­to per il poco sole nell’infanzia. Il battente socchiuso mi è bastato spingerlo per entrare nella penombra dell’ingresso, nel sentore di trementina. Lena mi ha accolto con drappeggia­to addosso un asciugaman­o da bagno. I capelli umidi in un turbante e quell’ambiguo sorriso di benvenuto. Qualcosa ha attirato il mio sguardo nello spicchio visibile di camera accanto. Dalla sponda del letto dei piedi maschili; risalendo con lo sguardo il taglio sghembo di due cosce muscolose. «Scusa. Forse disturbo». Il suo cenno di no: «Sei arrivato al momento giusto invece».

Gli occhi luccicanti come stelle nere.

«Lo sai – no? - che non ho mai potuto sopportare quella vostra aria caritatevo­le, così perbenista. Per cortesia: non diventare come tuo padre».

Ha gettato uno sguardo verso il suo modello in attesa, di là. Ora Lena sembrava davvero un angelo ribelle.

«Vieni», tendendomi la destra eccezional­mente prensile, «Unisciti a noi. È tempo».

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Foto di MimmoJodic­e

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