Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le indicibili seduzioni della pittrice Lena
Lena. Lena la selvaggia, l’ombrosa. Lena il piccolo genio, la grande autodistruttiva che pronosticavano sarebbe finita male. Lei, per sé, avrebbe invece rivendicato solo l’appellativo di pittrice. Una pittrice inattuale e fieramente figurativa contro l’andazzo dei contemporanei.
Lena, in tal senso, incarnava già da tempo una piccola leggenda nel sottobosco di mercanti, collezionisti, critici. Lena aveva, di fatto, litigato a morte con tutti i galleristi napoletani e, starei per dire, italiani. Li aveva, assurdamente, sdegnati in blocco. Così, alla soglia dei quaranta, era sola contro il mondo dell’arte e le sue tendenze imperanti. Lena: l’anacronista, la citazionista che rivisitava sulla tela i miti. Tutte vacue classificazioni per incasellare un’artista che era semplicemente tale. Artista, dunque un’ospite della vita, senza diritto di cittadinanza nell’esistenza comune di noi tutti. Io, ad esempio, sono un uomo comune. Non dico sprovvisto di capacità o meriti. Dico un semplice appartenente alla vita con tutti i crismi, i timbri, le formalità. Sono associato allo studio legale paterno; ho una moglie e due figli maschi la cui bellezza – una bellezza bambina - mi sorprende ogni giorno.
Lena la conoscevo da sempre. Abitavo all’ultimo piano: una sopraelevazione dalla metratura scandalosa per due genitori e un viziato figlio unico. Lena e sua madre, viceversa, erano rintanate in un buco precluso alla luce, ricavato dalle antiche rimesse nel nostro cortile in piperno. Ed eccoci al punto: al mio senso di colpa giudaico-cristiano verso la povertà innata di Lena (ci sono persone che nascono nella e per la povertà: lei fra queste). Un senso di colpa incrudito dalla sua chiaroveggente, immaginifica vocazione per il disegno. Vent’anni prima, mio padre era solito strabiliare davanti ai fogli zeppi di inventiva che la madre di Lena gli squadernava sul tavolo da cucina. Mio padre, in preda al mio stesso, odierno disagio morale, era stato per Lena un piccolo mecenate, sovvenzionandole gli studi all’Accademia. Ed era nei dintorni di essa, ancora oggi, che la incrociavo: in quei caffè che si addensano sul formicolare di via Costantinopoli.
Il mio ufficio è non lontano, perciò spesso la intravedevo sorbire – sola e infreddolita in un angolo – certe mescolanze imbevibili per chiunque: caffè, bricco di latte, acqua calda a parte, un cornetto sminuzzato nella tazza grande. Una strega o un’alchimista che armeggiava con i suoi intrugli. Della strega Lena aveva in qualche caso il vestiario: un poncho o un paio di scialli che ne camuffavano il corpo quando l’umido invernale di Napoli picchiava duro. Come un’alchimista, d’altronde, era portata alle trasformazioni. Cosicché, in occasione di qualche vernissage, poteva disfare quel bozzolo di lane uscendone slanciata con un abito nero prestatole da un’amica del cuore. Due o tre volte l’ho vista così, regale. Non più struccata come un ragazzo, ma esaltata dalla sapienza di un make-up quasi teatrale (del resto era una pittrice, no?). In quelle circostanze Lena sembrava molto più alta di quanto non fosse in realtà. Su questa illusione ottica incideva anche la sua figura molto ben proporzionata che, fin da ragazzino, spiavo e desideravo da un balcone d’angolo. Ed eccolo il punto dolente: il proprio aspetto esteriore, la svalutazione che Lena ne operava nel furente paragone con le altre femmine. Le sue fattezze da androgino alla Tilda Swinton, che pure me l’avevano fatta amare, erano il cruccio di Lena la perfezionista. L’inizio del suo abisso, la carie psicologica che la tormentava e la danneggiava nel profondo. Sì perché Lena, temendosi e credendosi meno avvenente di tante altre, minimizzava il proprio merito creativo. Cosa le importava, invece? Misurarsi con le altre donne – e vincerle – sul terreno della seduzione. In una fuorviante competizione immaginaria dove lei rivaleggiava collezionando, come trofei sportivi di una sola notte, aitanti giovanotti o uomini arrivati e fascinosi. Una sfida tanto ossessiva, per Lena, da drenare gran parte delle sue energie, oscurando gli obiettivi artistici, assecondando un’insana tendenza all’indisciplina. Mentre lei avrebbe avuto bisogno di amministrare le poche forze lasciatele dai malanni che la affliggevano. Infermità simili ai morbi sacri delle sacerdotesse pagane: la bipolarità dell’umore; i deliranti febbroni; le atroci cefalee, che la rendevano quasi cieca coi loro grappoli di fosfeni e che Lena, la cagionevole, auto-curava intossicandosi con analgesici dalla potenza demolitrice. Tutti postumi inevitabi- li se, come lei fa nei suoi dipinti, ci si inabissa negli spaventevoli miti dell’inconscio collettivo: la Medusa, le Sirene, Dioniso...
Quando l’altra settimana l’ho incrociata nel solito baretto, ha insistito per mostrarmi lo scatto fotografico di un suo dipinto. Pur così rimpicciolita dal display, quella tela ti si ergeva davanti come uno specchio. Il soggetto: un Narciso reso con un realismo anatomico certosino in tutta la tensione dei fasci muscolari. Il giovane – una bellissima macchina muscolare – aveva la testa mezzo avviluppata in un panno le cui pieghe risaltavano con un’evidenza più vera del vero.
«Narciso è cieco e fa diventare ciechi», mi ha sussurrato prima d’invitarmi a valutare l’opera dal vivo, nel suo alloggio-studio simile a un deposito. Ho accettato, con l’animo di chi si avventuri nella tana di una fiera. Mi sono recato ieri in quello stabile malridotto vicino gli Incurabili. Pianti infantili, raschi, un’eco televisiva per le scale scrostate. Lena abita all’ultimo piano, come risarcimento per il poco sole nell’infanzia. Il battente socchiuso mi è bastato spingerlo per entrare nella penombra dell’ingresso, nel sentore di trementina. Lena mi ha accolto con drappeggiato addosso un asciugamano da bagno. I capelli umidi in un turbante e quell’ambiguo sorriso di benvenuto. Qualcosa ha attirato il mio sguardo nello spicchio visibile di camera accanto. Dalla sponda del letto dei piedi maschili; risalendo con lo sguardo il taglio sghembo di due cosce muscolose. «Scusa. Forse disturbo». Il suo cenno di no: «Sei arrivato al momento giusto invece».
Gli occhi luccicanti come stelle nere.
«Lo sai – no? - che non ho mai potuto sopportare quella vostra aria caritatevole, così perbenista. Per cortesia: non diventare come tuo padre».
Ha gettato uno sguardo verso il suo modello in attesa, di là. Ora Lena sembrava davvero un angelo ribelle.
«Vieni», tendendomi la destra eccezionalmente prensile, «Unisciti a noi. È tempo».