Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il mercato del lavoro e la grande bolla delle nostre illusioni
Nella metropolitana di Napoli campeggiano in questi giorni dei grandi cartelloni pubblicitari per promuovere una prestigiosa scuola milanese di arte e design, nella speranza che qualche figlio della classe media si lasci tentare dalla promessa di una carriera gratificante nelle industrie creative.
Poco a fianco potremmo vedere la pubblicità di uno smartphone che annuncia di realizzare le nostre potenzialità, metterci in contatto con il mondo intero, fornirci strumenti semiprofessionali per registrare suoni e immagini... Ma in questo mare di promesse, la vera domanda che dovremmo porci è se tutte queste opportunità esistono davvero. Perché chi a Milano (o a Parigi o a Londra) ci è andato, chi ha preso la sua bella laurea o il suo diploma da artista certificato, si è accorto che la concorrenza è spietata. Il mercato del lavoro è diventato una gara al ribasso, dove i posti più ambiti (perché prestigiosi o gratificanti) sono anche i meno pagati. Non stupisce che le grandi scuole, a loro volta, si facciano una concorrenza spietata per acchiappare studenti tra le file dei borghesi meridionali: perché questa «industria delle aspirazioni» è l’unica in grado di far vivere chi nella stessa trappola ci è caduto qualche anno prima, allievi trasformati in professori al cuore di questa piramide di Ponzi che è il mondo culturale.
Questa è la grande bolla che ancora attende di scoppiare: la bolla delle nostre illusioni. Tra una generazione, forse, già non ci sarà più nessuno. La classe media erode i patrimoni accumulati negli anni del Boom, nel tentativo di garantire ai suoi figli un posto al sole. Ma i posti sono pochi, sempre meno, e quindi si alza il costo della formazione, si accettano pagamenti in visibilità nel tentativo di accumulare un capitale reputazionale da spendere prima o poi per accedere all’ambito posto fisso. E la classe agiata diventa dunque, come l’ho chiamata nel mio libro, classe disagiata. Una classe che dal capitalismo ha ricevuto una missione fondamentale — consumare — che col tempo si è rivelata essere un dono velenoso.
Da decenni l’industria culturale ci vende le sue retoriche dell’auto-realizzazione, se non persino della ribellione, eppure noi ci sentiamo sempre meno liberi e meno realizzati. Ci impone di sognare mentre noi iniziamo a sospettare che potremmo essere più felici se riuscissimo a essere soddisfatti di ciò che abbiamo — senza essere costretti a lasciare le nostre città per combattere gli uni contro gli altri nelle grandi metropoli per un posto da ufficio stampa o da aspirante artista.
C’è qualcosa di comico nel modo in cui inseguiamo le nostre aspirazioni, comprando a debito gli orpelli del nostro prestigio. Indossiamo come maschere quelli che i sociologi chiamano «beni posizionali», ovvero quei beni che dicono dove siamo o dove vorremmo essere nella scala sociale: tra questi ci sono i nostri titoli di studio, la nostra cultura... Ma tutto questo è soprattutto tragico perché sappiano che nel momento in cui dovessimo abbandonare questa recita, l’intera piramide crollerebbe. E togliendo le nostre maschere scopriremo con orrore che sotto di esse non c’è più nulla.