Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL PESO DELL’INSTABILITÀ POLITICA PUÒ COMPROMETTERE LA RIPRESA
Il rapporto del Censis sulla «situazione sociale del paese» ha destato anche quest’anno un grande interesse. Venti anni fa, nel 1997, vi si registrava «un intenso protagonismo della politica», che accentuava «una logica bipolare», dopo «un periodo umiliante» di marginalizzazione e decadenza di immagine e di considerazione, senza però che la rinnovata centralità della politica fosse separabile «dalla centralità dei soggetti sociali», che rimanevano i veri attori della spinta al raddrizzamento della politica economica avutosi in quegli anni. Si deprecavano, quindi, il ritorno alla autoreferenzialità della politica e il cedimento alla tentazione di seguire modelli stranieri invece che il modello italiano in cui ci si trovava.
Era un modo di vedere l’uscita in corso dalla grande crisi degli anni del crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Dodici anni fa, nel 2009, all’avvio della nuova grande crisi globale dalla quale solo ora si va uscendo, si notava come «quella italiana sia una società replicante, che di fronte alla crisi ha riproposto il consueto modello adattivo-reattivo», in cui era anche compreso un «silenzioso sfarinamento del lungo ciclo dell’individualismo fai da te» degli anni precedenti.
Per quest’anno 2017 la principale notazione afferma che è indubbiamente in corso una vera ripresa dalla lunga crisi degli anni precedenti; che l’uscita dalla crisi porta a constatare che le distanze di classe, ossia tra chi ha di più e chi ha di meno si sono accresciute; che attraverso i consumi si tende a tornare a un proprio stile di vita, cercando «un benessere soggettivo nella felicità quotidiana»; che si ha una «polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio»; che «l’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una volta»; che non c’è «un’agenda sociale condivisa»; che la politica appare «bloccata» nel riferimento a un capo visto e sentito come personalità che occupa i media. Di qui, secondo il Censis, il diffondersi di «risentimento e nostalgia» nell’atteggiamento politico «di chi è rimasto indietro», il netto delinearsi di una «Italia del rancore».
Solo formule? Evidentemente no, anche se un certo formulismo ha rappresentato da sempre la venatura debole del lavoro di De Rita e del Censis. Quanto è stato notato nel rapporto di quest’anno corrisponde largamente a fenomeni che sono sotto i nostri occhi, tanto che se ne è già più volte parlato. Così è, ad esempio, per l’accrescimento delle distanze tra le classi. Così, e ancora di più, è per la crisi profonda, tendenzialmente dissolutiva, del vecchio ceto medio. Ma parlare di rancore e di risentimento sociale diffuso per coglierne gli effetti è poco e molto vago. Quel che impressiona di più appare sempre più evidentemente la depressione, lo scoraggiamento, la conseguente incertezza, una delusione molto superiore al risentimento e al rancore, e anche una sorpresa ricorrente per qualcosa che non ci si attendeva per nulla e che non si riesce affatto a capire, sicché alla fine l’atteggiamento prevalente e dominante si traduce in un senso di vuoto, di impotenza, di generale inutilità del fare e del dire di tutti. A ciò poi si aggiunge la sottile, ma viscerale paura sociale del presente e del futuro, che nasce in particolare dalla crisi del vecchio ceto medio e dalle elementari e crescenti difficoltà dei ceti popolari.
L’effetto complessivo è quello denunciato dal diffuso abbandono della partecipazione politica e sociale, con la crisi mortale dei partiti, anche più vecchi e radicati; con la crisi solo dissimulata e latente, ma non meno profonda delle organizzazioni sindacali; e con l’astensionismo elettorale che consente ora di vincere una elezione anche avendo meno del 20% del corpo elettorale, per cui molti galli possono andare scioccamente a cantare sopra mucchi di desolate rovine.
È questo senso di vuoto, di impotenza, di inutilità, è questo senso di paura l’elemento più grave della situazione sociale del paese, nella quale e sulla quale è difficile costruire alcunché. E non è rancore quello che si vede in giro. È piuttosto rabbia, che si esprime elettoralmente nel voto contro tutti di cui si gloriano i 5 Stelle; e per fortuna non è una rabbia molto pericolosa al di là dei disastri che può provocare con i suoi riflessi elettorali. Negli anni ’20 e ’30 del ‘900 la rabbia e la paura sociale dei ceti medi e popolari provocarono ben altri sconvolgimenti.
La difesa da tutto ciò e il superamento di una situazione sociale così negativa dovrebbe venire da un grande scatto della capacità di iniziativa e di mobilitazione civica di una classe politica che fosse in grado di uscire fuori dalla stanca ripetizione dei moduli argomentativi e polemici, che si sono ormai più che vanificati nel ventennio di politica mediatica e spettacolare dal quale non riusciamo a uscire. Tutto è possibile, anche questo, ma per ora non se ne vedono segni.
Eppure, c’è, oltre tutto ciò, ancora qualcosa da dire. Anche il rapporto Censis riconosce che c’è una ripresa economica tale da configurare l’uscita dalla crisi di questi lunghi anni. Domanda: com’è possibile una tale ripresa se in tutte le membra del corpo sociale non fermenta qualcosa di vivo e di vitale, di attivo e reattivo? Si, è molto probabile che siamo noi a non saper leggere bene e in misura sufficiente nella vicenda della società italiana della quale parliamo solo n toni sconsolati e negativi. Nessuno si è posto, nessuno si pone questa domanda. Sarebbe davvero il tempo di farlo.