Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Fuga dei cervelli? Un falso problema»
Giuliana Bruno e Mariella Pandolfi, docenti oltreoceano, raccontano la città cosmopolita
«Esiste un’altra Napoli, non oleografica, colta e cosmopolita, che viene apprezzata all’estero». A parlare sono Giuliana Bruno e Mariella Pandolfi, che di quella Napoli sono due rappresentanti illustri. Una insegna ad Harvard, l’altra a Montreal. Sono in questi giorni in città in qualità di curatrici per il progetto «Carta bianca» al Museo di Capodimonte. «La fuga dei cervelli? Falso problema, ma chi vuole tornare deve poterlo fare».
Le due sorrident signore napoletane della foto qui a fianco hanno parecchio in comune. La grinta, per esempio. E l’eleganza. Ma anche una parte della loro storia personale è simile: Giuliana Bruno (a sinistra) insegna Visual Studies ad Harvard, Mariella Pandolfi è docente di Antropologia a Montreal.
Cervelli in fuga da più di trent’anni, hanno avuto successo all’estero e sono internazionalmente riconosciute come studiose di peso. In questi giorni sono tornate nella loro città per lo stesso motivo: partecipare al progetto del museo di Capodimonte, «Carta bianca». Entrambe sono state invitate dal direttore Sylvain Bellenger (in collaborazione con il direttore del Madre Andrea Viliani) a curare a loro modo una sala del prestigioso museo. E hanno accettato con entusiasmo. Cosa avete scelto e perché? Bruno: «Mi sono ispirata alla sensibilità e al gusto barocco della città, quel gusto per le cose oscure e vitali e per le arti minori. La mia idea era esporre degli oggetti come se uscissero dai quadri e per fare questo ho voluto esplorare i depositi del museo e portare alla luce il non visto. Un percorso pensato per far sentire e toccare con mano come si costruisce la memoria storica di un museo. Nella mia sala ci sono diverse nature morte, tele logorate, cornici impolverate, oggetti di uso quotidiano del passato. Il tutto diventa quasi un’installazione contemporanea che punta sulla materia delle cose, un punto fondamentale nell’epoca del virtuale. Il risultato è una sorta di archivio della memoria che sposa in maniera fluida passato e presente».
Pandolfi: «Ecco, ascolto Giuliana e mi accorgo che la nostra sintonia è notevole. Anche per me l’elemento di partenza è usare un altro sguardo, osservare diversamente la storia dell’arte. Ogni opera d’arte nasconde una discontinuità nella narrazione, una disarmonia nella bellezza che rivela un senso diverso delle cose. Sia sul piano storico che mitologico. Nel mio percorso faccio riferimento a Deleuze (che per il cinema parla del troppo presto e del troppo tardi) ma prima ancora a Eraclito e al suo terzo tempo, ovvero il tempo indefinito dell’evento, mai considerato nell’arte. Tra le opere, ho scelto la Battaglia di Pavia in cui si raffigura Carlo V che sconfigge Francesco I. Mi sono accorta che nell’arazzo non si vedeva il vessillo asburgico vicino a Carlo, è solo in un punto piccolo distante dal re. È questo che intendo quando dico che in un’opera c’è sempre un altro racconto di una storia. Nella Strage degli Innocenti, dietro una grata, si scorgono dei bambini (di cui uno nero) che guardano la scena dell’eccidio come a teatro. Anche questo è un differente livello della narrazione. Ho sempre studiato la violenza, la guerra. E alla fine del percorso ho posto al centro le armi, a indicare la bruta materialità della vita».
Per entrambe è stata un’esperienza straordinaria, che ha permesso di intrecciare più saperi, diversi campi di conoscenza?
Pandolfi: «Sì, tra l’altro nei nostri percorsi accademici c’è sempre stata una forte componente di interdisciplinarietà. In Italia non è facile andare oltre la rigida separazione di campi e sguardi. E invece all’improvviso ecco che Capodimonto ci dà carta bianca! Meraviglioso. Per me è stata anche una riconciliazione con la mia città».
Bruno: «Condivido. Per me ha significato affrontare una questione intima e al tempo stesso di interesse intellettuale. Del resto quando tanti anni fa sono arrivata a New York ho scritto un libro su Napoli. NOn me lo aspettavo nemmeno io».
Pandolfi: «Capodimonte, con gli altri musei, sta dando spazio a una parte di Napoli cosmopolita che spesso la classe dirigente dimentica e sta diventano motore di un rinnovamento profondo».
Come viene vista Napoli oggi dalle vostre parti?
Pandolfi: «Ho molti amici canadesi che difendono Napoli a spada tratta proprio perché ho fatto conoscere loro la parte forte e internazionale della città. Secondo me comincia a viaggiare un’immagine più complessa, Napoli ha recuperato qualcosa in termini di immagine».
Bruno: «Negli anni ‘80 quando dicevo che venivo da Napoli mi guardavano con sospetto. Forse proprio per questo scrissi il mio libro su Napoli, una delle prime capitali della modernità, la città dove nacque una grande industria cinematografica, la città di Elvira Notari. Anche nel mio successivo Atlante delle emozioni mi sono occupata dell’immagine di Napoli, ovvero di come la città veniva vista dai viaggiatori».
Pandolfi: «Napoli è una città che non sa vivere la continuità. Esprime dei picchi, delle eccellenze, ma non sa affrontare la normalità. Non sa vivere la responsabilità civile di essere una grande capitale. Giuliana e io siamo state pioniere di un nuovo tipo di emigrazione, libera, senza drammi, per la voglia di mettersi alla prova».
Bruno: «Siamo andate via in un momento particolare. Quando sono arrivata a New York c’erano ancora gli italoamericani che ricordavano Napoli attraverso gli stereotipi. Io sono arrivata in America quando non c’erano né e-mail né fax. Oggi è tutto cambiato e io mi sento più vicina alle nuove generazioni che si muovono con maggiore libertà. È questo il futuro».
E la fuga dei cervelli? Non impoverisce un paese?
Pandolfi: «È un falso problema. I ragazzi che studiano e brillano all’estero sono ambasciatori di un’altra Italia. Non hanno nulla a che vedere con l’emigrante nostalgico».
Bruno: «È pur vero che ci vuole anche qualcuno che resti. E chi va via può cercare di restituire qualcosa alla città in molti modi».
Cosa possono fare le istituzioni?
Pandolfi: «Moltissimo. Intanto i ragazzi devono poter tornare se vogliono. In Italia andrebbe affrontata la questione della scuola e quella dell’università».
Bruno: «L’università italiana ha adottato un modello che non è affatto anglosassone. Prendiamo un piccolo esempio: in Usa se ti laurei in una università e poi magari fai anche un master o il dottorato nella stessa sede non sarai mai preso lì. In Italia è il contrario».
Pandolfi: «L’Italia e Napoli devono aprirsi al mondo. Altrimenti non bastano nemmeno le migliori eccezioni. Ci vuole la regola».
Negli anni Ottanta in America da molti ero vista quasi con sospetto solo perché venivo dalla città del Vesuvio Oggi i miei amici canadesi difendono la mia città a spada tratta perché ho mostrato loro la cultura e le nostre eccellenze