Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Per gli abitanti delle Zone rosse i gemellaggi siano «tematici»
Paradosso Ora è previsto che chi lavora grazie all'economia del mare a Torre del Greco, andrebbe nella continentale Lombardia
Si discute spesso di federalismo solidale: il rischio vulcanico è certamente un argomento sul quale sodalizzare. Il tema è pregnante come dimostra il dibattito che anche nei giorni scorsi si è attivato sulle pagine del Corriere del
Mezzogiorno.
Come è noto, in provincia di Napoli sono presenti due tra i vulcani attivi, ritenuti tra i più pericolosi al mondo, sia per il loro potenziale distruttivo, sia per la quantità di popolazione esposta al pericolo, e quindi a rischio: il Vesuvio e la caldera dei Campi Flegrei. La Protezione Civile nazionale si è fatta carico dell’elevatissimo rischio determinato dal Vesuvio, redigendo due successivi piani di evacuazione, con l’obiettivo di mettere in salvo la popolazione, non appena la vasta rete di monitoraggio dovesse rilevare i primi sintomi di attività, individuando alcuni territori presso i quali, al verificarsi dell’evento, gli abitanti delle località interessate saranno trasferiti, attraverso la costituzione, ancora tutta da concretizzare, di gemellaggi fra località ospitanti e località a rischio.
L’analisi del territorio nazionale, riferita al rischio sismico e vulcanico, determinerebbe una necessità di abbinamento di alcune località, accoppiate in modo che il verificarsi del rischio in una non possa coincidere con il manifestarsi di alcun rischio nella località gemellata. Per intendersi, non è possibile che gli abitanti delle zone vesuviane possano essere trasferiti nell’Appennino, dove ciclicamente si verificano eventi sismici.
Si rivela necessario dunque elaborare una strategia in grado di determinare un nuovo assetto territoriale nazionale che, partendo dai territori ad alto rischio vulcanico, potrebbe estendersi al rischio sismico; determinando una rete di collegamenti sinergici per evitare che il verificarsi di un evento si associ, per gli interessati, ai disagi di una tendopoli, sostituita invece da dimore già disponibili, realizzate per funzioni diverse ma pronte a trasformarsi in luoghi di accoglienza. Accertati gli inconfutabili meriti della Protezione civile e l’esigenza di potenziarne sempre di più la struttura, va detto che è però necessario potenziare anche l’efficacia delle sue azioni in materia di gestione dei territori, delle popolazioni e dei beni interessati da rischi naturali e antropici.
Il riferimento è, in special modo, al rischio vulcanico, in relazione al quale si prevede che, al verificarsi della crisi, gli abitanti vengano sfollati e trasferiti in altre località per periodi non programmabili.
Sono proprio gli aspetti connessi agli spostamenti delle popolazioni che debbono essere affrontati, se si vuole effettuare un salto di qualità. Infatti i protocolli attualmente utilizzati, prevedono la loro attivazione solo al verificarsi delle crisi. Prima di tale evento, prevedono l’individuazione, di massima, dei territori che dovranno ospitare le popolazioni sfollate; le modalità degli spostamenti e le relative infrastrutture per la fuga e l’adunata della popolazione.
Inoltre, l’individuazione dei territori gemellati è stata elaborata, pur se in coerenza con gli obiettivi propri di un piano di emergenza, esclusivamente in termini organizzativi. Sarebbe stato e sarebbe auspicabile, invece, approfondire la conoscenza delle condizioni sociali, economiche e culturali dei territori da gemellare per realizzare «abbinamenti» proficui, preventivi e duraturi, per entrambe le parti, indipendentemente dal verificarsi dell’evento calamitoso. Proviamo, infatti, a riflettere su cosa succederà ai circa 700.000 abitanti della zona rossa del Vesuvio ed ai circa 550.000 della zona rossa dei Campi Flegrei in fuga, una volta che raggiungeranno le rispettive destinazioni. Ipotizziamo che l’evento, come è probabile, non duri solo qualche giorno. E se pure durasse tanto, chi può prevedere che la crisi non abbia una recrudescenza? È uno scenario ipotetico, ma non abbiamo dati a disposizione che possano fornirci indicazioni sicure.
Il recente terremoto dell’Italia centrale ha disatteso ogni previsione: dai tempi di apparizione del fenomeno rispetto all’ultima crisi sismica alla successione dell’intensità delle scosse. È ragionevole concludere quindi che, per i territori che rientrano in possibili aree di crisi, debbano essere previste soluzioni che riguardino le attività da mettere in campo prima del verificarsi della crisi, in sinergia con le strategie urbanistiche e territoriali dei comuni gemellati per creare gemellaggi stabili e reciprocamente vantaggiosi per ospitanti e ospitati.
Se si considera, a titolo di esempio, il caso di Torre del Greco, si potrà verificare che quasi il 30% dell’economia cittadina gravita attorno a quella che è definita la blue economy (il mare): ebbene, per gli abitanti della città vesuviana il Piano di emergenza Vesuvio prevede l’allontanamento verso la Lombardia, dove, inevitabilmente, oltre ai disagi della perdita di identità che sempre si verificano nei casi di delocalizzazione (anche a breve distanza come è avvenuto a Monteruscello), si aggiungerà la probabile perdita del proprio lavoro, che non avrà più possibilità concrete di essere svolto. Altrettanto dicasi per il settore florovivaistico, tra i più significativi in Campania (si pensi che il 20% circa delle aziende florovivaistiche della provincia di Napoli si trova a Torre del Greco). Più che di un allontanamento — peraltro, non provvisorio — si tratterebbe di una vera e propria «deportazione».
I comuni appartenenti alla zona rossa necessitano quindi di una pianificazione integrata e di politiche di sviluppo in grado sì di mitigare il rischio, ma anche al tempo stesso di favorire il potenziamento, fino a livelli di eccellenza, delle attività produttive, culturali e turistiche, in accordo con le storiche vocazioni territoriali di ogni singolo comune.
L’importanza di un tale approccio è ancora più evidente se si considera che le due zone rosse (vesuviana e flegrea) della Città Metropolitana di Napoli contano circa 1.250.000 abitanti per un’estensione territoriale pari a circa 485 chilometri quadrati; dati che, se raffrontati a quelli complessivi della Città Metropolitana, corrispondono rispettivamente al 40% della popolazione totale (3.107.336) ed al 41% dell’estensione territoriale (1.171 km2).
Se è auspicabile che la densità nei territori a rischio si riduca, non è, però, ipotizzabile la desertificazione, come non lo è stato fino ad oggi.
Dovendo fare i conti, nel progettare la strategia, con la presenza della popolazione, non resta altra via che la pianificazione del rischio già nella fase di redazione degli strumenti urbanistici e territoriali, affidando alle disposizioni riguardanti la mitigazione del rischio un ruolo sovraordinato rispetto agli altri criteri e all’intero piano comunale un ruolo di sintesi rispetto agli altri strumenti.
Ecco alcune indicazioni basilari per la individuazione delle azioni nel processo di pianificazione: divieto assoluto di incrementare i volumi residenziali; favorire il cambio di destinazione d’uso, da volumi residenziali a non residenziali e produttivi; realizzare aree di sosta ed infrastrutture per la mobilità convertibili, nei periodi di crisi, in aree di attesa e viabilità di esodo; mappatura delle caratteristiche socio-economiche e culturali, al fine di individuare i possibili territori con cui gemellarsi (anche più di uno per ogni località a rischio); favorire lo sviluppo delle eccellenze, che ne incrementino l’attrattiva ed il prestigio, quali componenti per agevolare i processi di aggregazione con i territori e le comunità individuate per accogliere la cittadinanza nei periodi di crisi.